Keith Rightway – Sur – traduzione Federica Aceto
“Solo che la ragazza non è annoiata, è curiosa. Si è avvicinata al tavolo. Scruta il buco, con una strana espressione. Cosa fa? Ah. Sta guardando l’occhio. Perché è questo che vede. Un occhio nella parete.
Solleva la mano.
Apre la bocca.
Ma aspettate. Aspettate che vi racconto.
Questa mia storia.”
Uno shock dell’irlandese Keith Ridgway Inizia con una festa, vissuta attraverso i suoi rumori prima, attraverso un buco nel muro dopo. Una festa data dai vicini di casa, perché in quest’opera di Ridgway di vicini di casa un poco si parla: di persone che abitano nello stesso quartiere popolare londinese, dove si possono incontrare anche ratti (se avete problemi con questa specie animale vi consiglio di evitare alcuni passaggi di questo libro), dove si incrociano personaggi diversi, amici, a volta amanti, a volte semplici conoscenti o vicini di casa osservati da lontano.
Vite che si incontrano e si raccontano, così, si potrebbe raccontare Uno shock: una raccolta di nove storie che, forse, sono racconti, forse sono solo punti di vista diversi, appartamenti diversi, vite che nello stesso momento procedono il loro percorso su binari che hanno in comune lo stesso sfondo fatto di luoghi, legami o rapporti.
Nove storie che hanno la circolarità già incontrata in opere come Ragazza, donna, altro di Bernardine Evaristo: dove tutto parte da un luogo per poi in quel luogo ritornare.
“Sei sola, risentita e hai il terrore di rimanere così per il resto della vita. Ma se una persona dovesse bussare alla tua porta e chiederti di raccontarle la tua storia tu la manderesti via. Perché come faresti a raccontare la tua storia? Come faresti, adesso? Ho amato qualcuno. Ma chi è che dice qualcuno? Amavo un uomo. Un uomo. Amavo una persona. E questo è tutto. E lo amo ancora, più di quanto sarei in grado di spiegare, in quel modo che non si deve nemmeno spiegare, in quel modo che tutti capiscono subito, perché è evidente, quel modo che in fondo è lo stesso per chiunque ami qualcuno, qualcuno che è morto, qualcuno che non c’è più, come se alla fine l’amore fosse uguale per tutti, uno schiocco di lingua, una singola lacrima, e la gente fa di sì con la testa e capisce”
Nove storie che contengono personaggi di vario tipo, personaggi che vivono o affrontano, ognuno a modo suo, la propria solitudine
Magari chiudendosi nel proprio mondo, magari raccontando bugie per inventarsi un mondo che non è mai esistito, magari con la rabbia di dover affrontare una giornata sbagliata o una vita sbagliata, magari a un incontro sindacale o bussando alla porta del nuovo vicino per raccontargli di quella coppia tanto carina che, di colpo, è sparita.
E la sensazione che resta al lettore è quella di essere un voyeur nella vita di questa comunità. Di ritrovarsi dietro a una delle tante finestre del quartiere a osservare, origliando qua e là dialoghi perfetti nel loro realismo
«Mio nonno diceva sempre-»
«Il marinaio?».
«Il marinaio, Diceva sempre che la cosa migliore era una morte rapida. Una morte improvvisa. Ti auguro che la morte arrivi come uno shock, diceva».
e anche quando toccano il limite del surrealismo.
Entrando nella intimità più intima, che sia quella fisica che sia quella mentale, dei personaggi che vivono dietro a quelle finestre; perché Ridgway là ci porta, dentro quelle case, dentro quelle vite, dentro il flusso di pensieri dei suoi protagonisti, fino a raggiungere il punto di farci raccontare una delle sue storie direttamente dalle “labbra” dell’appartamento che ospita il suo protagonista. Quell’appartamento che si prende anche il lusso di distogliere lo sguardo, a volte, intercalando il suo racconto con un
“è una cosa privata”
quando l’intimità del suo ospite diventa troppo intima.
Keith Ridgway riesce a trasmetterci il caldo e l’afa di quell’estate che ci sta raccontando, ma anche la sensazione di claustrofobia dietro alle porte chiuse: il ritrovarsi prigionieri di un luogo o il voler essere prigionieri di quel luogo. Quasi in una sorta di racconto “gotico” (notate le virgolette) dove il luogo può far sparire, risucchiare o, forse anche, proteggere. Delimitare al propria solitudine e incomunicabilità.

