Una vita, ancora

Theodor Kallifatides – Voland – traduzione Carmen Giorgetti Cima

“Con lo svedese, che amavo e che amerò sempre, non avevo mai raggiunto questa immediatezza, questa fluidità. Probabilmente non l’avrei mai raggiunta. La lingua era una corona di spine sul capo, non un battito del cuore. Il risultato finale non era né migliore né peggiore, era solo un altro. Sarebbe mai stato possibile sposare fra loro le mie due lingue?
Riscrissi le prime frasi in svedese e cercai di essere perfettamente fedele all’originale greco.
Impossibile. Per farne un testo in buon svedese dovevo cambiare. Non tutto e non molto, ma il mondo di una lingua era diverso da quello dell’altra. E cosi pure il ritmo. E anche il tempo.”


Si può parlare di lingue e migrazioni in poco più di cento pagine? Si può farlo risultando esaustivi, chiari, fissando un punto? Theodor Kallifatides ci riesce parlandoci della sua esperienza, del suo essere greco, ma anche svedese, lui che ha tradotto Bergman in greco e Ritsos in svedese, lui che ha venticinque anni ha lasciato la Grecia per emigrare in Svezia e che dopo cinquant’anni sente il desiderio di tornare in patria per vedere cosa è rimasto e cosa è cambiato

“Anch’io ero cambiato. Non ero più il venticinquenne che era andato in Svezia. Ero un uomo anziano che aveva vissuto in Svezia per mezzo secolo. Anche se avessi ritrovato la Grecia che ricordavo, non ero più sicuro che mi sarebbe piaciuta.”

Tutto inizia quando Kallifatides si ritrova a fissare la “pagina bianca”, a non riuscire più a scrivere, a decidere di andare in pensione, lasciando il suo piccolo studio in città e rinchiudendosi nella quotidianità della vita domestica con la moglie Gunilla.

“Ogni giorno incontravo le stesse persone. Ci riconoscevamo senza sapere nulla l’uno dell’altro. Ci salutavamo con un rapido sorriso, come a confermare che eravamo contenti di essere ancora in vita, e continuavamo per la nostra strada.
[…]
Quando arrivavo al mio studiolo ero già sazio di vita. Non so come esprimerlo diversamente. Non avevo bisogno di nient’altro. Oppure di qualunque cosa avessi avuto ancora bisogno, l’avrei trovata nella scrittura.”

 

Quando Kallifatides inizia a sentire che qualcosa gli manca: la scrittura certo, gli amici che il tempo gli ha portato via, ma anche quella terra, la sua Grecia, che si è lasciato alle spalle, non lasciandola mai completamente. Inizia così a farsi domande su quella che è la sua lingua


“L’emigrazione è una sorta di suicidio parziale. Tu non muori, ma sono molte le cose che ti muoiono dentro. Non ultima la tua lingua. Per questo sono più orgoglioso di non aver dimenticato il greco che di aver imparato lo svedese. La seconda cosa l’avevo fatta per necessità, la prima era stata un atto d’amore.”


Lui che in svedese ha imparato a scrivere, pur


“costantemente incerto, costantemente con l’angoscia di aver forse commesso un errore, che in svedese non si dicesse così. Per oltre quarant’anni ho scritto con questa spada di Damocle sospesa sopra la testa. E così sarebbe stato sempre, anche se avessi scritto altri quarant’anni.”


Kallifatides ci dice che ciò che fa parte delle tue origini, in fondo, ti resta incollato addosso, ma ci racconta anche la sensazione appartenere a due luoghi diversi. Ci parla di migrazioni, di nostalgia, di scrittura e di lingua e, forse, anche degli anni che passano e, quindi, di vecchiaia, e lo fa regalandoci un piccolo libro davvero illuminante. Un piccolo libro di, appunto, poco più di cento pagine.


“La questione era come sarebbe stato se avessi cercato di scrivere in greco. Che cosa ricordavo, che cosa avevo dimenticato, che cosa forse era andato perduto per sempre? Mi sembrava ancora più difficile ritrovare il mio greco che continuare a vivere una vita incerta con lo svedese.”