Tutto quello che non ricordo

Jonas Hassem Khemiri – Iperborea – traduzione Alessandro Bassini

“… mi sono girata e sono tornata indietro, avevo comprato i carciofi, il sole splendeva, i ragazzi tedeschi parlavano dei pomodori ananas, davanti a un negozio di mobili c’era un furgone da cui uscivano lampade e cassettiere, sui tavolini di un bar all’aperto la birra scintillava nei bicchieri di plastica, era una bella giornata, la gente stava bene, le bici trotterellavano sul pavé, i taxi suonavano il clacson, i gatti miagolavano, la città pulsava, ma Samuel era morto.”

Uno scrittore sta indagando sulla vita di Samuel, sulle ore che hanno preceduto un incidente che forse è un suicidio o forse no, ma in fondo su chi era Samuel, e lo fa interrogando le persone che gli sono stati vicini: l’amico Vandad, l’amica che si fa chiamare la Pantera, la madre e la sorella, Laide il suo amore, qualche conoscente. Ognuno cerca di spiegare o forse di giustificarsi, di dichiararsi non colpevole per quanto è successo. Ma tutti paiono avere un pizzico di colpa e l’innocente essere solo Samuel, un uomo troppo ingenuo, troppo buono anche, interessato a vivere più che a capire le dinamiche e le gelosie di chi lo circonda. Ma aveva un motivo per togliersi la vita?

Un libro che è un racconto a più voci, ognuna delle quali aggiunge un tassello alla vita di Samuel. Anche se ci renderemo presto conto che queste voci, a tratti, si smentiscono l’una con l’altra, provano a prevaricarsi, a dirci (anzi a dire allo scrittore che sta indagando) di avere in mano il punto di vista corretto, di essere dalla parte della ragione, di essere stato lui (o lei) la persona che a Samuel ha voluto più bene. Ogni personaggio ha in mano la sua verità, una sua interpretazione o, semplicemente, una sola parte del ricordo.

“Poi arrivò l’autunno in cui Laide e Samuel si incontrarono davvero. Ed è questo che alcuni (per esempio tu) chiamerebbero l’inizio della storia. Mentre altri (per esempio io) lo chiamerebbero l’inizio della fine.”

Chi racconta mente (e forse lo fa anche chi questi racconti sta raccogliendo). Lo fa volendolo fare, lo fa mentendo anche a se stesso per alleviare un dolore, lo fa perché è impossibile trattenere il ricordo imparziale e completo del passato. L’impossibilità di raccontare tutto ciò che è stata una persona; del resto il titolo credo dica molto in merito…

“Quanti dettagli le servono per riuscire a inquadralo? È importante sapere che aveva una lucertola di peluche che si chiamava Mushimuschi e che l’abbiamo persa durante una vacanza a Creta? Che da piccolo aveva paura delle sirene? Che cominciava a piangere quando sentiva una musica malinconica e diceva che gli «faceva male»? Che ha collezionato scatolette di caramelle PEZ finché non ha cominciato le medie? Che gli piaceva andare a scuola durante il biennio delle superiori ma poi ha odiato il triennio? Che aveva smesso di chiamare suo padre «papà» dopo il divorzio e aveva cominciato a chiamarlo per nome? Chi decide cosa è importane e cosa è superfluo? Tutto quello che so è che più dettagli le racconto, più mi sembra di trascurarne altri.”

Un libro che ci racconta che la verità non è mai una sola, specialmente se si tratta di ripercorrere ciò che è stato e di convivere con quel senso di colpa che trova via di fuga solo nell’ingannare noi stessi e gli altri con le parole, con una storia diversa, rivisitata. Ma un libro che ci parla anche di amicizia e di amore e, ovviamente, di perdita. E di cosa siamo disposti a raccontarci per andare avanti…

“Non credo si possa salvare qualcuno che non vuole essere salvato. C’è qualcosa di egocentrico nell’idea che sei tu a doverti occupare di chi ti sta intorno. Ognuno vive la propria vita e quando non ne ha più voglia c’è ben poco che si possa fare.”