Enrico Macioci – Terrarossa edizioni
“Nel giugno del 1981 avevo sei anni e oggi ne ho quarantacinque, ma il tempo trascorso mi sembra più lungo d’un intervallo di trantanove anni. Immensamente più lungo. Il mondo del 1981 non era diverso rispetto al mondo d’oggi, era proprio un altro. Diverso non rende l’idea poiché non parlo di gradazione, parlo di natura. Accostare il mondo del 1981 al mondo d’oggi è come accostare Pac_Man a Fortnite, Fantastico al Grande Fratello, Maradona a Messi, un diario a una pagina Facebook. Da allora sono successe troppe cose troppo in fretta, e se ficchi troppe cose in un lasso di tempo troppo breve il tempo si sfonda. Noi ci sfondiamo.”
Come dimenticare l’estate del 1981, come dimenticare quella canottiera a righe e Alfredino caduto nel pozzo. Come dimenticare la tragicità di quegli eventi che, forse per la prima volta, la televisione ci portava in casa, facendoci vivere il dolore di una famiglia e unendoci a quella famiglia nel dolore. Ma Macioci ci parla sì di Alfredino, ma lo fa come sfondo urlante, mettendo in primo piano la storia di un’amicizia tra due bambini, anch’essi di sei anni
“… mi sembra che tutti i bambini del mondo nell’estate del 1981 dovessero avere sei anni.”
Due bambini (la voce narrante è proprio Francesco, uno di quei due bambini, che ci parla dal futuro) che un pomeriggio si salutano come fanno ogni giorno: Christian intraprende la strada per rientrare a casa (a quei tempi era ancora pensabile che un bimbo di sei anni potesse rincasare da solo), distante pochi metri, Francesco lo guarda svoltare in fondo alla via, accanto a un bosco di cipressi e sparire.
“Questa è più la storia di Christian Crèoli che di Alfredo Rampi, credo (o perlomeno è la storia di entrambi); ma è anche la storia della loro, della mia, della nostra generazione. È altresì la storia della TV del dolore, della comunicazione del dolore, della civiltà che ha rimosso la morte spruzzando dolore ovunque.”
Questa è una storia che parla di porte da sfondare e di stanze buie, è una storia che parla della paura più grande che un genitore può provare, parla di come spesso scegliamo di lasciarci il passato alle spalle, di non vedere, di non ricordare. Di quegli eventi che cambiano per sempre il modo di guardare la vita. Anche se hai solo sei anni.
“Da bambini siamo acrobati sul filo della meraviglia, ma giorno dopo giorno il filo si sfalda. Quando si spezza non ce ne accorgiamo subito: la caduta può essere lunga. Può anche non finire mai.”
Non posso e non voglio dire di più: cosa è successo ad Alfredino purtroppo lo sappiamo tutti, cosa succede a Christian lo scoprirete leggendo questo piccolo romanzo di Enrico Macioci. Macioci che già avevo scoperto, e apprezzato, leggendo il suo romanzo (Tommaso e l’algebra del destino), dove, ancora una volta, l’angoscia per le sorti di bambino era potente e ti faceva scorrere le pagine con la velocità di chi vuole sapere come va a finire, di chi spera che tutto si risolva nel modo migliore.
“Si soffriva, credo, con sincerità; ma credo altresì che in una zona ben celata del misero cuore umano si gioisse. La disgrazia non toccava la proprio figlio o alla propria figlia, al proprio padre o alla propria madre, alla propria sorella o al proprio fratello, al proprio amico o alla propria amica – e soprattutto non toccava a sé. Non sono io laggiù nel pozzo, ci si diceva fingendo di non dirselo, temendo che qualche spettro udisse, che le reti televisivi catturassero una briciola d’ineffabile per poi ritrasmetterla urbi et orbi. I giornalisti sono i sacerdoti di un tempo privo di dèi, la loro messa celebra l’inesauribile racconto di un male che ci piace ritenere estraneo. C’è la guerra, ma non qui. C’è la fame, ma non qui. Il deserto avanza, ma non tocca la mia aiuola. I pesci ingurgitano plastica, ma io non li ho mai visti sputarla nel mio piatto. Un uomo è impazzito e ha sterminato la famiglia, ma no è il mio vicino di casa. I miei problemi, a ben pensarci, non sono così terribili. Posso evitare di affrontarli e compatire quelli altrui”

