Éric Chevillard – Prehistorica – traduzione Gianmaria Finardi
“La morte permette di relativizzare le piccole contrarietà dell’esistenza, pensò. Persino abbastanza radicalmente. Non ci si fa più una montagna da un granello di sabbia. Cambiano le priorità. Poi si accorse di ragionare come coloro che hanno rischiato di morire ma poi si sono ripresi. Sono quindi andato più in là di loro nel cammino della saggezza concluse. E sono persino arrivato fino in fondo. Nulla poteva più ferirlo. […] Eppure, per gusto della scienza, o per soddisfare piuttosto il demone della curiosità, voleva sapere. Cosa? Ma cosa ci faceva lì ad esempio e, tanto per cominciare, qual era il programma.”
Che Albert Moindre sia morto non è un mistero e non è di certo uno spoiler, dato che Éric Chevillard ce lo dichiara già nella prima pagina, anzi nella prima riga di quello che è un incipit capace di trascinare immediatamente il lettore all’interno del romanzo
“Quando fu morto, Albert Moindre considerò la sua nuova situazione con perplessità.”
Abbiamo quindi un uomo morto, un protagonista morto, ma questo non è un giallo; e non è nemmeno un’opera filosofica, pur essendo un romanzo capace di dare una risposta (una risposta alla Chevillard ovviamente) a molte di quelle domande che affliggono l’essere umano vivente, domande che forse solo nell’aldilà (ammesso e non concesso che un aldilà esista) potrebbero trovare un interlocutore,
“E non è per crudele ironia che avete dotato la vacca di un solido paio di corna e poi, come unico nemico, le avete dato una mosca?”
anche se non è così scontato che troveranno una risposta.
Ma all’aldilà il nostro protagonista troverà anche l’ufficio Delucidazioni, capace di svelare anche ciò che avrebbe preferito non sapere: il giudizio degli altri, ciò che conosciuto a tempo debito avrebbe potuto dare un corso diverso alla sua vita
“La pace dell’anima ha questo prezzo, noi lo sappiamo, e, al fine di approfittare pienamente del proprio soggiorno qui, ogni richiedente si vede dapprima offrire l’opportunità di sistemare le questioni che lo ossessionano, di trovare conforto dagli interrogativi che lo tormentano.”
La risposta a momenti di poco conto, dimenticati
“Eucalipto, è la parola che avevi sulla punta della lingua, il 12 luglio 1981 alle ore 18:37”
O irrilevanti perché sconosciuti
“Hai incrociato e persino leggermente urtato Marlène Dietrich, il 21 aprile 1988, sul marciapiede dell’avenue Montaigne, a Parigi”
E gli riserverà un osservatorio su ciò che sta succedendo in quel mondo di cui non fa più parte, oltre che la possibilità (come già detto) di chiedere, di accusare, di togliersi qualche sassolino dalla scarpa. Perché l’aldilà ha un apposito Ufficio Reclami
“E poi occorreva davvero che l’idea di cannone si formasse nel cervello umano – la gelatina di cotogne trema allo stesso modo e non concepisce armi […]?”
E tutto questo condito dallo stile unico (tanto che Prehistorica ha deciso di dedicargli un’apposita collana la “Chevillardiana”) di Éric Chevillard, uno stile capace di giocare con le parole, con le frasi, con le idee (geniali sempre); capace di farti sorridere nel modo che solo i grandi sanno fare, con stile e con il pensiero che va oltre quel sorriso, amaro forse, sicuramente consapevole del fatto che Chevillard ci abbia illuminato di una sua verità universale.
“Pensate che abbiamo creato l’umana sofferenza perché venga alleviata? Saremmo proprio degli incoerenti!”
Insomma Santo cielo è un’esperienza unica e, a mio avviso, imperdibile. Una visione, un flusso di parole trascinante. Un’opera di indubbia genialità. Un’opera che riesce a non essere mai scontata, mai banale e, di certo, non politicamente corretta. Ma con uno stile unico, ma questo l’ho già detto forse…

