Patrick Leigh Fermor – Adelphi – traduzione di Daniele V. Filippi
“Gli stranieri che maturano la più profonda stima della Grecia non sono quelli che si fanno portare in giro sotto tutela, bensì i viaggiatori solitari i cui itinerari li conducono, per caso, curiosità o mancanza di mezzi, attraverso le contrade più umili e recondite della vita greca. I monumenti del passato suscitano la loro meraviglia, e a buona ragione, ma non sono essi a occupare il posto d’onore nei loro ricordi e nel loro affetto, bensì proprio i greci: non i greci com’erano duemilacinquecento anni fa, né come saranno o potrebbero o dovrebbero essere un domani, ma i greci come sono adesso.”
Fermor ci porta a spasso per la Rumelia, una zona che non si trova
“Sulle mappe della Grecia di oggi […] Non è infatti un termine che delimiti un’area politica o amministrativa, ma piuttosto il nome, colloquiale, di una regione.”
e il suo è un racconto di viaggio, ma non certo il racconto che farebbe un blogger di oggi elencando i luoghi più in vista, invitandoci ad andare tra la folla, tra i “soliti” itinerari. No, Fermor ci parla di nomadi, di pastori, di pescatori, di monasteri (le Meteore) avvolti dal nulla, un tempo inaccessibili, dove il silenzio è il rumore di fondo
“Mentre le ombre della sera si addensavano, i monasteri presero a galleggiare, come veleggiando sulla superficie di un elemento loro proprio. I massicci pilastri che li sostenevano si trasformavano in appendici insignificanti – tremuli viticci che si assottigliavano rimpicciolendosi per poi sparire nel buio -, finché quei grappoli di cupole, cipressi e torri, piccole città celesti, parvero librarsi nel vuoto sorrette solo dal frullare d’ali di uno squadrone di serafini.”
E ci racconta gli uomini, i greci, il loro essere, la loro accoglienza e la loro voglia di conversare. Personaggi orgogliosi della loro storia, ma anche delle loro tradizioni, delle loro origini, della loro Grecia. Ci regala affreschi di vita quotidiana, che trasudano spontaneità, ma una spontaneità di altri tempi
“Da un vicolo in discesa rimbalzò una palla, seguita da una torma urlante di bei bambini: giunti sulla stradina rimasero paralizzati alla vista di un forestiero e stettero lì, una batteria di occhi sgranati, mentre la palla ormai orfana proseguiva la sua traiettoria. Una ragazzina stava facendo pascolare una capra poco sopra […], cantando fra sé una storia disperata di agguati sanguinari.
Il prete faceva anche il calzolaio. Se ne stava seduto a gambe incrociate sulla soglia di casa, in mezzo alle forme da scarpe e con la bocca piena di chiodini di legno.”
Perché comunque Rumelia racconta una Grecia degli anni cinquanta e, come ci dice Fermor, “la Grecia sta cambiando velocemente”, anche se forse alcuni villaggi sperduti tra i monti della Rumelia hanno ancora molto in comune con i racconti di Fermor
È un libro denso, così mi era stato descritto. E, in effetti, la scrittura di Fermor è ricca di particolari, di dettagli, di aggettivi, una scrittura alla quale oggi siamo poco abituati.Una scrittura non sempre semplice, pregna di parole da andare a cercare (o a scoprire).
Un libro forse non da leggere tutto in una volta: Quest’estate abbiamo viaggiato nelle zone raccontate da Fermor, e ogni sera leggevo il pezzetto di Rumelia relativo al luogo che avremmo visto il giorno successivo, queste le parole che hanno accompagnato la consegna di Rumelia, il diciassettesimo #librovagabondo . Ma, devo dire, leggere Rumelia è un’esperienza, un viaggio nel tempo oltre che nello spazio, una vera scoperta. È un vivere il viaggio da viaggiatore emotivo, da viaggiatore lento e attento, che si fa catturare da un gruppo di persone sedute al bar o da un paese che si chiama Aragosta (Astakos), ma dove non si mangiano aragoste“Di quando in quando, se la pesca è andata bene e c’è qualche suonatore a disposizione, uno di loro si alza e si mette a danzare da solo, lentamente, per la gioia di farlo, e poi si risiede a cantare e chiacchierare.”
Ed è anche un viaggio che ci parla della storia di quei luoghi, dell’etimologia delle parole, di tradizione appunto e di rivalità. E che ci racconta un popolo, oltre che una terra.
E poi c’è la bellezza delle ultime pagine, che sono vera poesia, dove ogni luogo visitato viene evocato attraverso un rumore
“La Rumelia (è) una canzone cleftica interrotta da cani e fischi laceranti[…]
Adros è acqua che scorre.
Le isole Ionie spargono il suono dei mandolini verso il tramonto.[…]
Nasso (è) il ticchettio di un rosaio di bosso smorzato dalla veste di una monaca.[…]
Le Sporadi sono le sciacquio del mare sentito da un uliveto.”
(alcuni esempi)
Rumelia è il diciasettesimo Libro Vagabondo, il consigio di Alaska di Milano

