Esther Kinsky – Iperborea – traduzione di Silvia Albesano
“A tutti noi che abbiamo vissuto il terremoto quel brontolio ha provocato una ferita. E la cicatrice che ha lasciato non andrà mai via. Per alcuni è piccola e nascosta, per altri è aperta ed evidente, come il rigonfiamento bianco che resta sulla pelle per un colpo sfuggito tagliando la legna. Dopo quella ferita tutti quanti abbiamo dovuto ricomunicare da capo, come se fossimo bambini, solo che noi adulti avevamo già una vita alle spalle che ancora ricordavamo. Ma abbiamo dovuto ricominciare quasi tutto da zero. Il lavoro, i rapporti con i vicini, la musica, tutto quanto adesso era diviso in un prima e un dopo.”
C’è un prima e un dopo il 6 maggio 1976, o almeno c’è un prima e un dopo per chi quel giorno lo ha vissuto sentendo tremare la terra. Chi in Friuli aveva una casa, una famiglia, dei parenti.
C’è l’esattezza del ricordo di quel giorno, del prima, del cielo, degli animali irrequieti e “strani”, fuori luogo, fuori dal loro modo di essere, del paesaggio che sembrava mandare dei segnali,
“Nel tardo pomeriggio del 6 maggio, sulla vetta del Canin e sulle distese di neve che ancora resistono lassù si allarga un’ombra scura e vi si posa come una mano. Segue una breve raffica di vento gelido, e l’ombra scompare, come se la mano fosse stata tolta”
e del come quel rombo è arrivato, di come da quel giorno nulla sia più stato lo stesso. Perché prima di quel giorno il terremoto non era esistito, se non come un’entità lontana, la solita “cosa” che succede lontana, non certo a noi, non certo ai nostri cari
“Fino al 6 maggio 1976 il sisma era un pezzo di geologia legato a credenze e superstizioni, usanze e detti, come quelli per il diavolo o le disgrazie in miniera e nel taglio della legna, gli incendi, le inondazioni. Nonostante le centinaia di piccole scosse e sussulti della Terra nel corso dei secoli, il terremoto non era inscritto nella memoria se non come un evento da tenere lontano con gli scongiuri”
Esther Kinsky ci racconta una storia fatta di frammenti, un romanzo corale potremmo chiamarlo, dove le voci si rincorrono nel parlare di ricordi,
“A volte i ricordi mi sembrano un mucchio di cocci. Fai di tutto per raccoglierli con la scopa ma loro continuano a ruzzolare giù, e a ogni colpo di scopa finiscono in una posizione diversa. E cozzano uno contro l’altro, alzando polvere, e anche la polvere fa parte del mucchio che cresce sempre di più, come i ricordi. In cima ci sono le cose che ancora sappiamo, mentre le schegge minuscole e i granelli di polvere sono le cose che dimentichiamo e poi ci tornano in mente, quando la scopa a forza di passarci sopra ha rimescolato gli strati del mucchio. E intanto si sente sempre quello scricchiolio, quel tintinnio leggero delle schegge e dei frammenti”
di dettagli, di una vita vissuta in un paesino della Carnia, dove le montagne sono sfondo e dove il confine è proprio lì, dietro quelle montagne.
E questo è un libro che, raccontando il terremoto del 1976 in Friuli (un evento che ha cambiato questa terra fisicamente in quanto la ricostruzione ha generato un luogo diverso, a tratti anche meno genuino), ci racconta i pochi abitanti di un piccolo paese friulano, di confine appunto, alla fine degli anni Settanta, dove il sogno più grande dei ragazzi era quello di andarsene, dove l’emigrazione era per molti l’unica possibilità. Ma non solo questo, perché Kinsky fa un lavoro meraviglioso intersecando ai racconti dei vari Gigi, Adelmo, Mara, Olga, Toni (per dirne alcuni), paragrafi dedicati ai riti, agli animali, alla geologia di quei luoghi, alla natura tutta, consegnandoci così un libro che odora di poesia e, nello stesso tempo, ha il realismo della storia.
“E così le storie sono tutte lì davanti a me, scritte nel paesaggio”
Un libro che consiglio assolutamente a chi ha vissuto quei giorni, a chi altrove ne ha vissuti altri di simili, ma anche a chi vuole leggere un romanzo che ha la potenza dei ricordi raccontati sulla panca di sasso fuori dalla porta di casa, scrutando il cielo e sperando di non sentire mai più quel rombo.
“In seguito tutti parleranno del rumore. Del rombo. Con cui è iniziato. Con cui tutto è cambiato, come dicono, in un colpo solo, anche se forse era piuttosto una spinta, come la conclusione sorda e smorzata di un movimento cominciato molto lontano. Quel rumore si è inscritto nella memoria di ciascuno, sotto nomi diversi. Sibilo, ronzio brontolio, sussurro, tuono, strepito, fruscio, stridore, borbottio, fischio, rimbombo, boato. E così via. Ma sempre cupo.”
Io non c’ero, non ero in Friuli il 6 maggio del 1976, c’ero quando c’è stata la scossa di settembre, ero bimba e ricordo qualcosa di un po’ sfumato. Ma ciò che non ho mai dimenticato è lo sguardo di chi c’era, quello sguardo che a ogni rumore un po’ più forte correva a controllare se il lampadario stava dondolando, è la paura di dover scappare in strada, di doversi salvare ancora una volta che faceva scattare quelle persone dalle sedie sulle quali erano sedute, è il sospiro di sollievo che arrivava dopo, quando veniva constatato che no, “lui” non era tornato. Almeno non quella volta.

