Ricardo Piglia – SUR – traduzione Gianni Guadalupi
“Voglio dire, in realtà è vero che non ci succede mai nulla. Tutti gli avvenimenti che uno può raccontare di se stesso non sono che manie. Perché in fin dei conti, cos’è che si può arrivare ad avere nella vita, a parte due o tre esperienze? Due o tre esperienze, nient’altro (a volte nemmeno questo). Non ci sono più esperienze (c’erano nel XIX secolo?), ci sono solo illusioni. Tutti ci inventiamo storie diverse (che in fondo sono sempre la stessa) per immaginare che ci sia successo qualcosa nella vita. Una storia o una serie di storie inventate che alla fine sono l’unica cosa che realmente abbiamo vissuto. Storie che uno racconta a se stesso per immaginarsi di avere avuto esperienze o che nella vita gli sia successo qualcosa che ha senso”
Se dicessi che di quest’opera di Riccardo Piglia, ho compreso tutto, mentirei. Come mentirei se dicessi che l’ho letto presa dall’irrefrenabile desiderio di immergermi in una lettura che già da subito sapevo essere ostica, impegnativa, mossa dalla necessità di uscire dalla mia zona di conforto. Ma mentirei anche se dicessi che questo non è stato un viaggio pazzesco, perché, anche non capendolo interamente, anche perdendomi parecchie volte e ritrovandomi a rileggere alcuni passaggi, ho chiuso il libro esclamando: Caspita!
Raccontare Respirazione artificiale è complesso, o almeno lo è per me. Del resto raccontarne la trama è, in questo caso, abbastanza inutile; come dice lo stesso Piglia nelle prefazione
“nei romanzi invece la trama è soltanto una guida, o meglio la mappa di un territorio che si va trasformando mano a mano che procediamo. Quando diciamo che non possiamo smettere di leggere un romanzo è perché vogliamo continuare ad ascoltare la voce narrante.”
Certo verrebbe da obiettare che non per tutti i romanzi è così, ma questo è molto più di un romanzo e qua, davvero, è la voce narrante che tu vuoi ascoltare. E lo è soprattutto nella seconda parte, quando abbandoniamo la parte epistolare della storia, quella forse un po’ più difficile un po’ più lontana da chi, come me, è molto digiuna di storia argentina,
“Non mi sembra che si tratti di ribattere subito a una lettera con un’altra, come se giocassimo a carte. Non mi pare sia il caso di confondere la corrispondenza con le cambiali, anche se in un certo senso una somiglianza c’è: le lettere sono come cambiali da pagare. Proviamo sempre qualche rimorso verso un amico cui dobbiamo una lettera, e non sempre la gioia di riceverle compensa l’obbligo di rispondere. D’altro canto la corrispondenza è un genere perverso; per prosperare necessita della distanza e dell’assenza”
per addentrarci nelle “chiacchiere” (per modo di dire chiacchiere, qua signori si vola parecchio alto) tra Renzi e Tardewski. E qua non è solo ciò che i due si dicono, ma è il modo in cui Piglia sceglie di raccontarci quel dialogo, il ritmo della narrazione, che ci strega, ci ipnotizza. O almeno lo ha fatto come me.
Perché mi sono detta: Pazienza se questo libro è troppo per me, pazienza se domani non saprò raccontarlo a un amico, io di questo romanzo mi porterò a casa la sensazione di aver letto dell’alta letteratura (o di aver scalato un montagna, come direbbe quell’amico che mi ha consigliato questa lettura), mi porterò a casa l’adorazione per Tardeswki e le sue parentesi immaginarie, il suo divagare, passando da un argomento all’altro, non perdendo mai il filo.
“Quanto a lei, era appassionata di letteratura da sempre, ma non si sentiva in grado di dedicarsi alla scrittura, perché, disse la donna, raccontò Marconi, mi dice Tardewski”
Mi porterò a casa un incontro tra Hitler e Kafka
“Adolf, il disertore insignificante e grottesco, a Franz Kafka che lo sa ascoltare, al tavolo del caffè Arcos, a Praga, sul finire del 1909. E Kafka gli crede. Pensa che sia possibile che i progetti impossibili e atroci di quell’ometto ridicolo e famelico arrivino a realizzarsi e che il mondo si trasformi in ciò che le parole stavano costruendo: il castello dell’Ordine e la croce uncinata, la macchina del male che incide il proprio messaggio nella carne delle vittime. Non seppe forse ascoltare la voce abominevole della storia?
Il genio di Kafka sta nell’aver capito che se quelle parole potevano essere dette, allora potevano essere realizzate”
E un confronto tra un maldestro Kafka e un abile Joyce, dove Kafka ne esce vincente.
“Joyce? Tentava di risvegliarsi dall’incubo della storia per poter fare dei bei trucchi di prestidigitazione con le parole. Kafka invece si svegliava, ogni giorno, per entrare in quell’incubo, e cerva di scrivere su di esso”
Respirazione Artificiale pare essere un codice per raccontare altro, come quel codice forse nascosto nelle lettere che caratterizzano la prima parte; un romanzo che parla di dittatura senza parlarne, un romanzo che esalta il potere della parola scritta, del tramandare quella parola, nel leggere oltre il dettaglio, oltre ciò che pensiamo di dover trovare nelle righe, o vorremmo trovare. Un romanzo che è anche critica letteraria, fatto di citazioni e di racconti dentro alla storia
“Sono un uomo interamente fatto di citazioni”
Una trama in Respirazione Artificiale ce l’ha anche, ma un poco tu lettore te la dimentichi quella trama, ti dimentichi come sei arrivato nel paesino argentino di Concordia, non pensi all’appuntamento che due persone si sono date là, vuoi solo che l’alba non arrivi mai e che Tardewski continui a raccontare

