Raccontare se stessi

Sono tanti i modi in cui ci si può raccontare,

penso, mentre fisso la pagina bianca davanti a me.

Lo si può fare elencando ciò che si è fatto, ogni singolo passo che ci ha portati a essere ciò che siamo ora, oppure considerando solo un passo sì e uno no, lasciando fuori quelli trascurabili, quelli imbarazzanti, quelli dolorosi.

Lo si può fare per negazione, dicendo ciò che non vogliamo o vorremmo essere; ciò che detestiamo, ciò che non vogliamo faccia più parte della nostra vita.

Lo si può fare parlando delle emozioni che abbiamo vissuto, di un film che ci ha fatto piangere o di quel libro che vorremmo consigliare a tutti; di quel personaggio che un po’ ci assomiglia o di quell’altro al quale invece vorremmo assomigliare. Raccontando il nostro ultimo innamoramento o quel luogo che ci manca così tanto.

Lo si può fare mettendo una croce su un casella: maschio o femmina, titolo di studio, professione, fascia d’età. Caselle che ci guardano come il dato di un sondaggio, che ci rendono identici ad altri dati, ad altre croci.

Ogni modo ha un suo destinatario,

penso continuando a fissare la pagina di cui sopra: probabilmente eviterò di raccontare l’emozione di un tramonto sul mare a un colloquio di lavoro, o non elencherò tutto ciò che detesto ad un primo appuntamento, almeno che non desideri che diventi il primo e l’ultimo.

Guardo quella pagina bianca, in alto a sinistra c’è scritto Ti racconto chi sono: sono giorni che provo a riempire quel bianco che segue quel titolo.

Potrei dire che mi piace il verde, penso, oppure che c’è stato un tempo che non amavo i gatti, mentre ora mi sono simpatici. Potrei dire che sono capace di piangere davanti a un gol segnato o a un abbraccio non mio. Che voglio ridere di più e lamentarmi di meno, che provo a camminare ogni giorno, e che camminare mi serve per pensare per cercare delle idee…

Ecco, forse, questa ultima cosa potrei anche scriverla, penso.
Poi raggiungo la croce in alto a destra e chiudo la pagina. Ci penserò domani, dico ad alta voce