Quando migrano, gli uccelli sanno dove andare

Usama Al Shahmani – Marcos y Marcos – traduzione Sandro Bianconi

La letteratura fu la minuscola imbarcazione che lo salvò dagli uragani della guerra.
“Sei impazzito? Non ti basta la morte che ci assedia da ogni lato, devi andare a cercarla anche nella letteratura?” gli aveva chiesto Hamza, un amico, quando aveva visto Morte a Venezia.
“È un’altra morte, amico mio. Con una lingua magica il romanzo racconta la fine di un’epoca. È la storia del momento in cui molto si trasforma e si distrugge, come avviene con la morte. Assomiglia all’attimo della nascita e del nuovo inizio, ed è ciò di cui noi abbiamo bisogno in Iraq”.


Nascere in Iraq significa conoscere da subito la guerra, la violenza, l’oppressione del regime. La paura.


“La paura ha rovinato la nostra vita. Prova a immaginare: a volte, quando mia figlia si sveglia di notte. La prendo nel letto con me, la tengo in grembo e provo a farle riprendere sonno. Poi vedo il suo letto vuoto, e il mio cuore impazzisce. Senza rendermene conto, grido il suo nome e la chiamo, finché mio marito si sveglia, mi tranquillizza e mi fa notare che la tengo tra le braccia.”


Significa sapere che non sei libero di dire o non dire ciò che vuoi, che lanciare una scarpa, per gioco o per litigio, contro un compagno, mancare la mira e colpire il ritratto di Saddam, può voler dire finire in prigione e non tornare più a essere quello che eri: un bambino. Significa guardare lontano sperando in qualcosa di migliore, di diverso


“In Iraq i sogni sono i nostri unici spazi liberi”


Dafer, il protagonista di Quando migrano gli uccelli sanno dove andare è costretto, come l’autore del romanzo, a lasciare l’Iraq, a fuggire. È costretto a farlo a causa di un’opera teatrale non rispettosa verso il regime. Raggiunge così la Svizzera, dove proverà a chiedere asilo politico.

Usama Al Shahmani ci racconta la giovinezza in Iraq di Dafer, la fuga, i bunker dove Dafer sarà costretto ad attendere il visto, ci racconta la Svizzera, così diversa dall’Iraq, così ordinata, così sicura. Il dover far convivere due lingue differenti, l’abitudine a una nuova vita

“Quando era giunto in Svizzera aveva i capelli neri, non sapeva il tedesco ed era solo, ora i capelli sono ingrigiti, sogna in tedesco e si sente legato a molte persone. Gli è ormai difficile immaginare di vivere senza il tedesco. La sua vita ha preso una direzione completamente nuova. Dagli svizzeri ha imparato a correre nel senso delle lancette dell’orologio, ogni lancetta nel suo orologio si sforza di sorpassare l’altra. Anche se l’arabo conserva il suo posto accanto al tedesco.”


Quell’esilio che se da un lato è mancanza, è nostalgia 


“Dicono gli iracheni: la vita in esilio assomiglia al tentativo di applaudire con un amano sola. Puoi farcela, ma il suono non sarà mai come quello di due mani”


Dall’altra è l’unica possibilità di poter vivere, sorridere, andare avanti.


“Dafer si chiede se ha davvero perso qualcosa, quando ha lasciato la patria. O la patria è solo una grande menzogna, alla quale ci piace credere?
[…] talvolta i ricordi della vecchia patria sono solo un campo di macerie, pieno di orrore e paura, soldati con armi e volti misteriosi, insegnanti con una pistola nella cintura”


Quella patria che forse è meglio non rivedere mai più, per non perderne la nostalgia del ricordo.

Usama Al Shahmani ci racconta la sensazione di vivere il senso di colpa di chi non solo è riuscito ad andarsene da un territorio pericoloso e ostile, lasciandosi indietro la famiglia, le amicizie, l’infanzia, ma è anche riuscito a integrarsi nel nuovo mondo, in una nuova patria. Rimanendo certo un iracheno che parla tedesco, ma anche un iracheno che indietro non tornerebbe mai.


“Anche se sono trascorsi anni dalla caduta di Saddam, non riesce a pensare con serenità a Bagdad e all’Iraq. Nel suo intimo è rimasto un senso di estraneità non sorretta dalle parole, la sensazione che, ogni volta che tenta di fissarla sulla carta, gli sfugga di mano, come se la lingua la uccidesse.”