Primo sangue

Amélie Nothomb – Voland edizioni – traduzione Federica Di Lella

– Ahimè,Paddy, che ne faremo di te?
– Suvvia, mia cara, tuo figlio è un ragazzo pieno di risorse. È gentile, brillante, pacifico, eloquente…
L’elenco di quelle doti mi demoralizzò: era il contrario di quello che volevo essere. E oltretutto da dove lo aveva dedotto la Nonnina che ero eloquente? Io parlavo a stento. Chissà, forse era proprio quello che lei chiamava eloquenza.
– Che carriera si può intraprendere con queste qualità? – gemette mia madre, che capiva da quel ritratto quanto fossi diverso dai Nothomb.
– Be’, la carriera per antonomasia! – rispose la Nonnina.
– Cioè? – chiesi.
– La diplomazia.

Chi conosce un minimo di Amélie Nothomb sa che è figlia di un diplomatico, che è una scrittrice belga, ma in Belgio è arrivata già da adulta. Ha vissuto in Giappone, in Cina, ma anche altrove e, comunque, questa è un’altra storia.

O forse no, dato che Primo sangue è la storia di suo padre, Patrick Nothomb, discendente di una famiglia nobile, orfano di padre troppo presto e alle prese con una famiglia che un po’ lo coccola, un po’ lo getta nel mondo per farlo crescere, diventare adulto. E quel “mondo” in cui lo getta è la famiglia del padre, una famiglia numerosa e stramba che vive in un castello altrettanto strambo

“Da lontano vidi una torre spuntare dalla foresta. Il castello di Pont d’Oye mi lasciò più sorpreso che deluso. Visto da lì, sembrava infossato; man mano che ci avvicinavamo scoprivamo che si ergeva su un promontorio. Il meno che si potesse dire è che roccaforte non era la parola più adatta a descriverlo: si sarebbe potuto coniare appositamente l’appellativo di roccadebole.”

Dove, in un’atmosfera quasi dickensiana, il nonno scrive poesie e la nonna coltiva rabarbaro e dove zii di ogni età si contendono un posto a tavola.

Amélie Nothom sceglie di raccontarci in poco più di cento pagine la storia di alcuni passaggi della vita del padre, dall’infanzia appunto, all’incontro con la madre, al momento in cui sa che diventerà padre, all’inizio della sua carriera; e sceglie di farlo usando la prima persona singolare, restituendoci così un’autobiografia o, come direbbe la stessa autrice, restituendoci la voce di quel padre che ora non c’è più.

Patrick diventerà diplomatico, e il romanzo di Nothomb ha inizio quando Patrick è, in Congo (la sua prima destinazione), ostaggio di un gruppo di ribelli. Mentre sta trattando con i sequestratori, anzi proprio mentre sta per essere portato davanti al plotone di esecuzione. Il momento in cui, appunto, tutta la vita gli passa davanti.

“E dire che ho invidiato a Dostoevskij l’esperienza del plotone di esecuzione! Ora tocca a me provare quella rivolta di tutto il proprio essere. No, rifiuto l’ingiustizia della mia morte, chiedo ancora un momento, ogni attimo è così intenso che anche solo assaporare lo scorrere dei secondi basta per mandarmi in estasi.
I dodici uomini puntano le armi contro di me. Vedo davvero scorrermi davanti agli occhi tutta la vita? L’unica cosa che sento è uno straordinario rivolgimento interno: sono vivo. Ogni momento è divisibile all’infinito, la morte non potrà raggiungermi, sprofondo nel cuore pulsante del presente.”

Un romanzo che si legge in un paio di ore, come è nello stile di Amélie Nothomb, un romanzo che a suo modo esalta il potere della parola, del dialogo

“Non bisognava mai permettere al silenzio di prendere il sopravvento durante le discussioni. Se stavo zitto e stavano zitti anche gli altri, si risvegliava all’istante il demone del grilletto”