Notte inquieta

Albrecht Goes – Marcos Y Marcos – traduzione Ruth Leiser

“Fëdor Baranowski: il linguaggio è radicato nel mistero e i nomi hanno una loro magia. Non potevo impedire che quel nome di soldato, a me solo un’ora prima sconosciuto – e destinato a rimanere sconosciuto, quasi cancellato ormai dal registro del tempo – mi ricordasse per una qualche omofonia un altro nome, un nome inestinguibile, sacro e terribile insieme, il nome di Fëdor Dostoevskij. Lui, all’ultimo momento, fu strappato al patibolo. Invece il plotone del tenente – come si chiama? – del tenente Ernst mirerà giusto.”

Il tempo di questo breve romanzo è poco più di una notte, di una notte di tempesta. Una tempesta che fa sbattere gli scuri e correre ai ripari, che impazza fuori dalla locanda, fuori da quella stanza dove un pastore ha solo quella notte per trovare le parole da dire, il giorno dopo, a un condannato a morte, e due amanti hanno la stessa notte per dirsi addio.

Una tempesta che sbatte dentro agli animi, che pone interrogativi, che istilla il dubbio su ciò che è giustizia e ciò che è dovere (o obbligo), e su quale sia la priorità in tempo di guerra.

“E se anche dovessimo sopravvivere, allora avranno il diritto di chiederci: che cosa avete fatto? E noi tutti ci metteremo a dire: no, noi non abbiamo nessuna responsabilità, abbiamo fatto soltanto quello che ci è stato comandato.
[…]
È questo che volevo domandarle: noi siamo davvero superiori a tutti i vari Kartuschke? Non siamo forse anche più marci di loro perché sappiamo quello che facciamo?”

Perché siamo nel 1942 e, se prima della guerra chiunque era altro, ora è la guerra a dettare le regole, a decidere le priorità

“«Heil Hitler, signor pastore».
Era come salutare con una coltellata.”

a decidere cosa un uomo deve essere, cosa un uomo deve fare. Quando un uomo deve morire

“Siamo in guerra, non si può vivere come si vorrebbe; e tantomeno morire come si vorrebbe”

Ma, forse, c’è una cosa che la guerra, che Hitler, non può spazzare, non può mutare ed è l’umanità delle parole, la coscienza di chi almeno continua a chiedersi se tutto quello che sta succedendo sia giusto. Il tormento del senso di colpa, quel senso di colpa che resterà anche dopo, anche quando la guerra avrà lasciato solo i sopravvissuti.

Un romanzo (una novella forse) splendida nel suo essere essenziale, nel suo dirci molto in poche pennellate, in poche parole appunto. Un romanzo fatto di parole e che alle parole sa e riesce a dare valore.

Lo consiglio, semplicemente, a tutti! Specialmente in questi tempi…

“Bisogna sconsacrare la guerra. Toglierle ogni incanto. Bisogna inculcare nella coscienza umana la certezza di come sia banale e laido questo mestiere di soldato”