Benjamin Labatut – Adelphi – traduzione Norman Gobetti
«Quello che stiamo creando» disse «è un mostro la cui influenza cambierà il corso della storia, sempre che una storia continui a esserci! Ma sarebbe impossibile non andare fino in fondo. Non solo per ragioni militari, ma anche perché non sarebbe etico, da un punto di vista scientifico, non fare quel che sappiamo di poter fare, per quanto le conseguenze possano essere terribili.»
Forse molto di Maniac sta in questa frase pronunciata realmente da John von Neumann alla seconda moglie Klára Dán. Sta parlando di bomba atomica, von Neumann, e queste parole mettono i brividi a chi le legge o, almeno, a me hanno fatto questo effetto: l’aspetto etico della scienza, una scienza che può portare a conseguenze terribili, ma che deve andare avanti.
Dico che molto sta in questa frase, ma ovviamente non tutto: Maniac è anche quel viaggio che Paul Ehrenfest fa con lo scopo di uccidere il figlio affetto da sindrome di down e poi togliersi a sua volta la vita. Quel viaggio che Labatut ci racconta nel dettaglio, usando pochi punti, quasi a farci intuire la follia che avanza. Quel viaggio, quelle pagine, che a mio avviso valgono il libro intero. Pura letteratura alta.
“… invece si alzò, meccanicamente, sospinto da una forza che non riconosceva e non comprendeva, e fece cinque passi con le gambe rigide come quelle di un automa, per salire sul vagone e prendere posto fra gli altri passeggeri.
Sarebbe giunto a destinazione alle dieci.”
Un Ehrenfest che deve affrontare l’arrivo del nazismo e della eugenetica, ma forse soprattutto lo scontro con l’irrazionale, con quel caos che Nelly Meyjes, artista e amante del fisico, racconterà come unico motore dell’arte.
E Maniac è tutto ciò che von Neumann è stato, dico tutto, perché ci viene raccontato in una sorta di collage di interviste (ovviamente inventate) fatte a chi lo ha conosciuto, del resto come dirà lo stesso scrittore, riportando la frase di non so più chi “più grande è l’oggetto più occhi servono per guardarlo”.
Madre, fratello, mogli, figlia, amici e colleghi, nomi noti e meno noti del mondo della matematica, della fisica, della scienza, in un collage che a me ha fatto venire in mente il film Zelig di Allen, ovviamente in toni molto diversi; ma io questi personaggi me li sono proprio immaginata, seduti su un divano, dipinti in un colore che vira al seppia, mentre ricordano e raccontano.
E poi c’è la parte finale, una sorta di cronaca sportiva: il gioco del go, l’uomo che sfida la macchina o la macchina che sfida l’uomo. Gli albori di quell’intelligenza artificiale che noi oggi sentiamo nominare almeno una volta al giorno.
“Il loro obiettivo era creare un’intelligenza artificiale più potente e molto più generale, che non si limitasse al go nelle sue capacità di apprendimento, e che non si aggrappasse alla comprensione e alla conoscenza umane per muovere i primi passi. Presero il loro algoritmo e lo ripulirono, non lasciandogli alcun dato umano da cui imparare, privandolo della sua unica connessione diretta con l’umanità.”
Labatut dice che il suo libro non parla di scienza, che a lui interessano “i sogni folli della ragione”, ed è proprio questo che ti porti a casa leggendo Maniac: l’ossessione del matematico, del fisico. La follia dell’individuo e la sua genialità, o forse la follia che appartiene a ogni genio.Von Neumann lo detesti, ma non poi che rimanere affascinata dalla sua testa, dalla sua intelligenza e non puoi che commuoverti davanti a quella scena in ospedale (vera o inventata che sia), quando ormai alla fine, chiede alla figlia quanto fa 1+1
“Ma ora il suo genio si era guastato al punto che non ricordava più neanche l’aritmetica di base. Le sue vastissime facoltà intellettuali erano scomparse. Non restava più niente del talento che era stato la sua caratteristica principale, e l’espressione di cieco panico che gli torceva i lineamenti mentre quella consapevolezza lo sopraffaceva a poco a poco fu la cosa più straziante che mi sia mai capitata di vedere.”
Un romanzo questo, perché come sappiamo Labatut scrive letteratura, scrive “un’opera di finzione basata sulla realtà”, che mischia, oltre che realtà e finzione appunto, anche diversi stili narrativi, ma mantenendo sempre lucido il filo conduttore quello che forse è lo scopo del tutto: raccontarci gli uomini. Raccontarci l’unicità di alcuni individui e, probabilmente, di tutti. Raccontarci il progresso che corre, irrimediabilmente corre avanti
“Il progresso diventerà incomprensibilmente veloce e complicato. Il potere della tecnologia in quanto tale è sempre ambivalente, e la scienza non può che essere neutrale, limitandosi a fornire mezzi di controllo applicabili a qualunque scopo, e indifferenti a tutto. Il pericolo non sta nella natura particolarmente distruttiva di una specifica invenzione. Il pericolo è intrinseco. Per il progresso non c’è cura.”

