L’ultimo amore di Baba Dunja

Alina Bronsky – Keller editore – traduzione Scilla Forti

“Aspetto le ore serali per innaffiare i miei cetrioli e i miei pomodori. Attorno ai fiori di zucca gialli ronzano le api. Io le contemplo incantata. Dopo l’incidente nucleare, per molto tempo non ho più visto nemmeno un’ape da queste parti. Gli animali hanno affrontato la cosa ciascuno a modo proprio. Le api sono scomparse. Impollinavo i pomodori a mano, con l’aiuto di un pennellino. Forse il fatto ch un’ape si insinui finalmente nel calice di un fiore è la buona notizia che Petrov desiderava. Se fossi più giovane lo griderei ai quattro venti. Decido di scriverlo a Irina. E a Laura.”

Baba Dunja è “minuscola e rotonda, arriva a stento a un metro e mezzo”, ma è diventata la figura di riferimento (una sorta di sindaco) per la piccola comunità che ha deciso di seguire il suo esempio e di tornare a Černovo, un paesino poco distante da Chernobyl, un paese radioattivo, dove pare esserci un unico destino: la morte certa.

E a Černovo nessuno vuole arrivare, nessuno vuole fermarsi, di Černovo la gente ha paura; così la piccola comunità ha creato un suo ritmo, delle abitudini, una vita lontana e dimentica del resto del mondo (di quasi tutto il resto del mondo, perché poi ci sono quegli affetti che devono restare lontani, altrove). Una piccola comunità dove, oltre gli abitanti, arrivano solo quei morti che Baba Dunja incontra.

“Se c’è una cosa di Černovo che non baratterei nemmeno con l’acqua corrente e una linea telefonica, è la questione del tempo. Da noi il tempo non esiste. Non esistono né termini né scadenze. In sostanza i nostri processi quotidiani sono una specie di gioco. Riproduciamo ciò che le persone fanno di solito. Nessuno si aspetta niente da noi. Non siamo obbligati né ad alzarci la mattina né ad andare a letto la sera. Potremmo anche fare esattamente il contrario. Mettiamo in scena la giornata, così come i bambini mettono in scena la vita delle bambole e i negozi in miniatura”

Ma un giorno a Černovo un uomo arriva, con al seguito una bimba e quella bimba lì non può proprio stare. Per quella bimba Černovo è un luogo troppo pericoloso. Lei ha ancora tutta la vita davanti…

L’ultimo amore di Baba Dunja è una storia che parla della libertà di poter scegliere dove e come vivere. E questo nonostante tutto, nonostante possa sembrare la scelta più sbagliata, più pericolosa. Anche se in casa i ragni tessano ragnatele sempre più grandi e le cicale cantino con suoni sempre più acuti.

È una storia che, in fondo, parla di appartenenza e di amore per il proprio luogo, per le proprie origini; dell’impossibilità di allontanarsi da ciò che è casa.

Baba Dunja è una “nonnina”, che ormai ripete sempre di non avere più ottantadue anni, mite ma  determinata, una donna che non si arrende e che sa proteggere la sua gente: una donna che sa mettersi in gioco e, in fondo e soprattutto, una donna saggia, nonostante non dia mai consigli non richiesti e non faccia mai domande. Una donna che ha capito che “avere un marito non ti rende meno sola”, forse perché lo ha imparato sulla sua pelle.

“Dopo il rito civile, quando tutti avevano già mangiato e bevuto, mi sono tolta le scarpe e ho cominciato a ballare nel nostro cortile. Gli uomini si sono messi a cantare, fischiare e gridare tutti assieme. Jegor mi ha tirata via dal centro, mi ha spinta in un angolo e ha detto che da quel momento dovevo tenere le scarpe addosso. Sembrava che volesse pestarmi le dita nude dei piedi con il suo stivale pesante. Lì ho capito di aver commesso un errore.

Non sono arrabbiata con Jegor; a quei tempi gli uomini erano quasi tutti così. L’errore non è stato scegliere quello sbagliato. L’errore è stato il matrimonio in sé. Avrei potuto mantenere Irina e Alexej anche da sola e nessuno mi avrebbe detto cosa fare dei miei piedi.”

A Baba Dunja tu lettore vorrai bene, ti conquisterà con la sua ironia (sì, ti farà anche sorridere) e la sua cocciutaggine. Non la dimenticherai facilemente…

«Credi che nascerà un nuovo pesco?»
«No. Le pesche si riproducono più che altro per talea».
«Intendevo dire, primo o poi questo posto dimenticherà ciò che gli è stato fatto? Tra cento, duecento anni? Ci vivranno delle persone che saranno felici e spensierate? Come prima?»