Paola Cereda – Giulio Perrone editore
“Nel resto d’Italia spopolavano i Ricchi e Poveri, vincitori dell’ultimo Sanremo, e il mondo intero si innamorava di un’americana dal cognome italiano, Louise Veronica Ciccone.
Eppure a Fosco Bruna ascoltava il Quartetto Cetra, in ritardo persino sulla sua età. Il paese, chiuso tra la curva delle guardie e la piazza a picco sul mare, aveva un confine preciso che diceva da che parte stare.”
Fosco è un paese arroccato sugli scogli, un paese con vista mare che ha una scala che non porta al mare, perché quella scala è rotta e perché agli abitanti di Fosco raggiungere il mare è proibito.
A Fosco ci si arriva da un’unica strada: fuori dal paese c’è un cartello crivellato dai proiettili e c’è la curva delle guardie, a ricordare che lo Stato si ferma un po’ fuori di Fosco. In paese comanda Totonnu, con i suoi uomini. Comanda la paura, la non speranza, l’obbedienza.
“L’obbedienza manifesta era il migliore dei rifugi possibili. A Fosco, la disobbedienza e la fuga erano fatti privatissimi.”
A Fosco vivono anche Irene, Rocco e Angiolino. Irene ha quindici anni e porta sempre con sé un quaderno arancione sul quale disegna ciò che vede e ciò che vorrebbe vedere
«Sul quaderno ci metto le visioni».
«Che cosa sono le visioni?».
«Sono desideri utili».
è innamorata di Rocco, il figlio di uno “sparato in bocca”, di un traditore. Anche Rocco è innamorato di Irene. Angiolino è il figlio di Zi Totonnu, è un ragazzo gracile e molto lontano dal diventare l’erede del padre.
I tre ragazzi, alla sera, salgono sui tetti e sognano di riattaccare Fosco al mare.
«Noi non abbiamo colpe».
«Certo che le abbiamo. Restiamo sugli scogli e ci accontentiamo di guardare. E quando finalmente scendiamo al mare, lo facciamo di nascosto. Entriamo in acqua con tutti i vestiti addosso. Controlliamo a destra e a sinistra per paura che qualcuno possa andare a raccontare a Totonnu la nostra disobbedienza».
«Così ci hanno insegnato».
«Non ce l’hanno insegnato, Ci hanno detto: è così e basta. Io voglio una scala che mi porti al mare. La voglio per me, per l’allegria delle mie giornate. E la farò».
«Certo, sul tuo quaderno arancione».
«Prima sul mio quaderno arancione, e poi lungo il dirupo che scende alla spiaggia».
Paola Cereda ci racconta una storia di pura fiction, ma una storia che potrebbe essere vera. Ci parla di un paese che non esiste, ma che potrebbe essere uno dei molti paesi feriti dalla ‘ndrangheda. Ci racconta personaggi che sono di pura finzione, ma che hanno la forza di uscire dalle pagine. Ci parla di donne coraggiose, di femminilità (come le definisce lei) che hanno il coraggio di seguire la propria strada, alcune reagendo, alcune rispettando le regole, alcune andandosene. Ci racconta il dolore della perdita e la caparbietà della rinascita.
Le tre notti dell’abbondanza è un romanzo che ti fa sentire la claustrofobia di Fosco, ma ti fa anche alzare gli occhi verso le stelle. È un romanzo pieno di colore, dove il colore diventa un modo per fare resistenza, per opporsi, per farsi sentire forse. È un romanzo che dice di non arrendersi mai, ma di trovare una strada diversa: anche quando la strada per il mare viene distrutta, anche quando il colore rosa e il colore rosso vengono vietati dagli astucci,
“… quella rinuncia la obbligò all’ipotesi che le persone potessero essere arancioni, verdi e anche un po’ blu. E lei, occhi nuovi, cominciò a dipingere”
Paola Cereda ci regala un romanzo che parla certo di un mondo dove il sangue e la famiglia dettano le regole, dove c’è violenza e morte, ma anche una storia d’amore e, in fondo, anche di felicità, dove
“La felicità sta tutta nel contatto”
e, a volte, anche nel ricordo. E, credo sempre nella libertà di essere ciò che si vuole essere.

