Federico Falco – SUR – traduzione Maria Nicola
“Nei film, nei romanzi, il tempo passa facilmente. Vengono raccontati solo i fatti importanti, quelli che fanno avanzare la trama. Il resto – i dubbi, la noia, le lunghe giornate in cui non succede niente, la tristezza stagnante – sparisce a colpi di ellissi, di tagli netti, di rapidi riassunti.
Una commedia romantica. Lui conosce lei. O lui conosce lui. O lei conosce lei. Qualunque sia il genere o l’orientamento, verso la metà della storia i protagonisti si lasciano, parte una musica, appare in sovrimpressione un calendario e i fogli girano in fretta, portati via dal vento. Il protagonista cammina in riva a un fiume, il protagonista lavora seduto a una scrivania, la canzone continua: è estate, è autunno. «A» esce a correre sulle foglie secche. Di colpo è già inverno, «B» si sistema la sciarpa mentre cammina in una bufera di neve. È di nuovo primavera, «A» esce di casa, compra un mazzo di fiori. La musica e il riassunto, una soluzione facile che permette agli autori di togliersi di trono il problema del tempo.
Che cosa fanno i personaggi tristi dei film di tutte le ore del giorno? Che cosa fanno quando non suona la musica?
È come se nel tempo del lutto non ci fosse la narrazione.”
Ci sono diversi modi di raccontare la fine di una storia, quel lutto che nei film scorre velocemente tra le note di una canzone. Quel lutto che non è così inusuale trovare nei romanzi, ma che Falco sceglie di narrare in un modo tutto suo, non scontato, non banale, armandosi di una scrittura quasi poetica, di uno sguardo leggero, che non ferisce mai, allevia, sorregge quasi.
Il protagonista de Le pianure viene lasciato dal compagno e decide di andarsene da Buenos Aires e di tornare in campagna, nel luogo della sua infanzia, e lì si fa accogliere da una nuova quotidianità fatta di orto e galline, di vicini che non sono così vicini, di poche parole e di ricordi e riflessioni. Di pianura
“La pianura era un grande vuoto e ogni tanto lasciava credere che fosse possibile riempirlo.”
Le pianure è una sorta di diario, pur non essendo un vero e proprio diario: ogni capito è annunciato dal titolo di un mese e il protagonista ci racconta le culture di quel mese, cosa semina, cosa raccoglie e cosa la natura e il clima proibisce di fare. Ci parla di siccità e di pioggia, di alberi che crescono con la loro lentezza e di attesa,
«Il modo in cui passiamo le giornate è il modo in cui passiamo la vita», dice Annie Dillard.
E alterna tutto questo ai suoi pensieri, ai suoi ricordi, ai suoi incontri. Passato e presente raccontati in capoversi brevi e veloci, quasi pennellate, che danno al romanzo il ritmo di un libro che puoi lasciare sul comodino e leggere un pezzetto ogni tanto, magari seguendone proprio la stagionalità della storia. Oppure il lettore può leggerlo tutto d’un fiato, come ho fatto io, camminando nella quotidianità del protagonista, tra i ricordi dell’infanzia e l’elenco delle parole più amate, tra gli uccelli che riconosce sui rami o ciò che lui legge e che (io immagino) appunta da qualche parte
«Ti ricordi Monica Vitti quando diceva: “Io non riesco a guardare a lungo il mare, sennò tutto quello che succede a terra non mi interessa più”?», chiede Anne Carson in uno dei suoi libri. Poso il libro sull’erba a faccia in giù, e penso.
In quel dolore che è lì sottopelle e che a volte colpisce inaspettatamente, altre è silente, distratto, coperto da altro.
Il nostro protagonista è uno scrittore che non riesce a scrivere, perché scrivere è pensare e lui, ora, ha bisogno di fare di mettere le mani nella terra, di aspettare che le galline facciano le uova e di camminare nel rettangolo di alberi fatto dal vicino. Perché, forse, per andare avanti, per riuscire a superare un lutto, un dolore, la mancanza bisogna
“Legarsi a qualcosa.
A un orto, a un bosco, a una pianta, a una parola.
Legarsi a qualcosa che abbia radici, legarsi per non perdersi nel vento che soffia sulla pampa e chiama.”
Qualcuno ha definito questo libro un libro curativo, io lo definisco un libro coperta, un libro rifugio. Un libro che parla di una “riparazione”, che fa capire che a volte basta aspettare, basta farsi raccogliere dal tempo dell’attesa e guardare fuori dalla finestra che la stagione successiva arrivi.
Un libro che parla di dolore, ma con la speranza che ha il contadino che aspetta la crescita dei ravanelli seminati nell’orto.

