Patricia Esteban Erlés – Cencellada – traduzione Sara Papini
Qualche secondo dopo le domandò il nome, senza guardarla, per non destare sospetti nella sorella vigilante.
Galia ci impiegò un attimo a rispondere. Aveva così tanta paura che pensava di aver perso la voce.
«Prudenza» sussurrò alla fine. Mida fece schioccare la lingua
«No, il tuo nome vero, quello che avevi prima di entrare qui».
«Non ho il permesso di dirlo, mi spiace» mormorò, guardandosi intorno, per controllare che la guardiana non fosse vicina.
[…]
«Non permettere che ti portino via quel nome. Non ti chiami come ti hanno detto. Hai un nome, è tuo, mi senti? Custodiscilo. Io mi chiamo Mida»
Se in un romanzo si sono degli orfani, noi ci prepariamo da subito al dolore. Se poi c’è anche un orfanotrofio ci prepariamo da subito al genere gotico.
Le madri nere ci porta a Santa Vela, una luogo che un tempo è stata la dimora di una donna che per sfuggire alla sfortuna si è chiusa in casa, facendo costruire stanze su stanze, labirinti di corridoi e scale. Santa Vela è un luogo angusto e freddo, dove abitano suore che non hanno più un nome, ma solo un numero, e orfane che al posto del nome di battesimo hanno quello di una virtù
“Lì era dove le orfane smettevano di essere la figlia di qualcuno, una bambina che qualcuno aveva scelto di chiamare in qualche modo. Lì venivano abbandonate da tutti i loro ricordi, lì venivano trasformate in altre”
Orfane private dei loro capelli, che indossano uniformi grigie; senza voce, impaurite e (quasi tutte) con lo sguardo basso e ubbidienti.
E non sono sempre orfane le orfane di Santa Vela, a volte sono figlie abbandonate perché portatrici di un difetto, di una malattia, a volte hanno ancora il padre, a volte sono solo troppo belle.
Questa è una storia che si apre con l’ululato dei lupi, che dà voce alle orfane e alle suore, ma anche a quella casa così stanca di esistere
“Non è facile essere da tutte le parti allo stesso tempo quando dopo una tempesta ti fa male ogni vetro rotto dell’ala nord. Sono un enorme corpo vecchio e stanco. Un corpo assurdo, pieno di arti trapiantati dalla follia di una donna anch’essa fuggita, non verso l’esterno, come la ragazzina di cui parlano le orfane, ma dentro. Verso il mio interno”
E, persino, a un Dio che si abbassa e sussurra all’orecchio dell’orfana più ribelle “non esisto”.
È un romanzo buio Le madri nere, un romanzo che riesci a vedere solo in bianco e nero (e forse più nero che bianco), ed è un romanzo raccontato con una scrittura densa, che non ti permette distrazione. Una scrittura capace di diventare protagonista essa stessa, capace di rendere l’atmosfera, il timore, la disperazione di chi nulla può fare. Una scrittura labirintica come quella casa, una scrittura anche blasfema.
“Dio a volte si domanda come sarà morire. Smettere di avere tempo, sentire che la fine della vita esiste, che è proprio quella certezza a fa sì che la visione fugace della bellezza, o dell’amore, valgano la pena. Dio è così impegnato a pensare a tutto il tempo che ha davanti a sé da guardare a malapena di sottecchi le piccole lucciole che si accendono un secondo nel cuore della sua notte. Dio si lagna ma è solo”
Ma non tutto è buio ne Le madri nere: non lo è Tilda, la suora che troverà la stanza dei libri e proverà, lei analfabeta, a insegnare a leggere alle orfane.
“Dio sapeva più di chiunque altro, sapeva che pochissime volte Tilda pensava a lui quando pregava. Di solito occupava la mente con quel luogo che era diventato il centro della sua vita. Dio brontolava nei cieli quando decifrava i pensieri di quella figlia discola. Non pregava Lui, ma dei vecchi libri”
non lo è Jeronimus, che si innamora della bella Pola, pur non avendola mai vista e pur sapendo di essere lui troppo brutto per meritarla
“La amò ancora di più quando gli raccontarono che nessuno ne aveva udito la voce, che la ragazza più bella non aveva gola. Lo consolò sapere che se alla fine si fossero incrociati in una delle viuzze selciate e lui non avesse avuto il tempo di nascondersi nella sua tana, Pola, la bella, non avrebbe potuto esprimere il suo orrore nel vederlo”
Non lo è il gesto atroce che un’orfana commetterà per rispondere alla richiesta di aiuto di un’altra orfana.
Non lo è la scrittura così densa di poesia di Patricia Esteban Erlés. Così potente.

