Andrej Longo – Adelphi
“Comunque Gerry si crede che sarà un sabato come gli altri.
Se lo credono tutti prima che succedono le cose.
Pure Irene se lo crede. Che mò, nel letto matrimoniale, alle sei e ventinove, sta abbracciata a un cuscino e ancora dorme. Dorme stesa in lungo, a occupare tutte il letto, come sempre da cinque anni a questa parte.”
Gerry è poco più di un ragazzo, fa il barista e si occupa di una madre malata. Irene fa la poliziotta e ha una figlia adolescente. Due vite che corrono in direzione opposta in una Napoli che pare guardare il mare da lontano; un mare al quale nessuno pare prestare attenzione, come se quel mare fosse destinato solo a chi se lo merita, a chi ha tempo per guardarlo, a chi non deve sempre correre.
“Lontano, più in basso, se il ragazzo sul motorino tenesse il tempo di guardarlo, vedrebbe il mare. Che visto da lassù potrebbe anche sembrare trasparente.
Ma Genny, così si chiama il ragazzo sul motorino, un Sì truccato a regola d’arte, in questo momento se ne fotte del mare e di tutto il resto. Genny, in questo momento, il mare e tutto il resto, cerca solo di attraversarli più in fretta che riesce.”
due vite che potrebbero non incontrarsi mai, ma due vite che stanno correndo una incontro all’altra. Due vite, due protagonisti, che mischieranno i loro giorni a causa di un evento tragico.
E poi c’è la terza protagonista della storia, la scrittura di Andrej Longo, una scrittura che detta il ritmo, che rallenta quando è il tempo del dolore, del ricordo, del pensiero
«Voleva andare al mare. Impararsi le correnti, i pesci».
Gira due tre pagine, e a ogni pagina ci sta la foto di una cosa di mare, una conchiglia, un calamaro, un delfino che salta fuori dall’acqua.
«Perché preferisci i pesci alle persone? Le ho chiesto una volta. Lo sai che mi ha risposto, animale?».
Gli spinge la testa sulle pagine del libro.
«Perché i pesci almeno stanno zitti e non dicono scemenze come noi.»
E accelera, quando il ritmo è quello della fuga, della caccia, dell’adrenalina. Una scrittura che usa frasi brevi, veloci, che fa aumentare il battito del cuore, che non permette al lettore di prendere fiato. E comunque, il lettore non lo vorrebbe quel fiato, perché una volta entrato nel vortice della storia vorrà solo correre fino alla fine. Una scrittura, quella di Longo, che si serve del dialetto per rendere più credibili i personaggi, per radicarli nel loro habitat, per renderci quasi reali.
La storia la vediamo attraverso il punto di vista dei due protagonisti, un punto di vista che si alterna in modo sempre più serrato, fino a comparire nello stesso paragrafo: quasi una macchina da presa impostata sul primo piano che si sposta dal viso di Irene a quello di Genny a quello di Irene…
Questo è il terzo Longo che leggo e ormai lo considero una certezza. Forse questo tra i tre non è il mio preferito e in alcuni tratti ho colto una forzatura nella scrittura, un eccesso nello spiegare il dettaglio dei movimenti, ma nello stesso tempo credo che anche questo abbia un senso per rendere freddi alcuni passaggi, per scarnificarli, per far progredire l’azione passo per passo, aumentando in questo modo la suspense, l’attesa, ma anche il senso di sofferenza.
“Irene tira una boccata, poi uno alla volta prende i pezzi della pistola, ci mette il solvente e con un pannetto di cotone fa la prima pulita. Dopo il solvente, tocca all’olio. Sempre un pezzo alla volta, senza fretta. Quando ha finito con l’olio rimette i pezzi assieme, fino a montare di nuovo la pistola.
Alla fine fa scorrere il carrello, ma le pare che non scivola bene. Così torna a smontarla e ricomincia puto accapo.
Quando la pistola è a posto, la poggia sul tavolo.
Si spalla contro la sedia.
Prende un’altra sigaretta.
Se l’accende.
Ormai ha deciso: domani sarà tutto finito.
Aspira una boccata. Lunga, come il fumo che scende fino a dentro i polmoni.”

