La vita involontaria

Brianna Carafa – Cliquot

“Dalla collina si vedevano spuntare qua e là le tegole in tutto quel verde e perciò il luogo si chiamava “i Tetti Rossi”. Solo così: “i Tetti Rossi” pronunciato non so se con pudore, o rispetto, o paura.”

Inizia costeggiando il muro che delimita “i Tetti Rossi”, facendocene intuire l’invalicabilità, una sorta di mistero che racchiude ciò (chi) sta oltre quel muro. Portandoci piano piano a capire di che luogo si sta parlando, senza mai confessarcelo apertamente

«Avrei preferito che la mamma fosse morta»

Dice una delle comparse del romanzo, sottintendendo un “piuttosto che saperla là, oltre quel muro”

La storia ci viene narrata dal protagonista della storia, Pintus. Siamo a Oblenz, un paese tedesco inventato, che si affaccia sul mare, pur non essendo forse un paese di mare


“Che il mare ci fosse, s’indovina dal suono sordo e moltiplicato degli echi delle sirene che, di tanto in tanto, alto come una torre, sovrastava il brusio delle macchine e i gridi dei ragazzi.”

Ma a Oblenz rimarremo il tempo di una manciata di capitoli, perché Pintus, orfano e cresciuto dagli zii, lo abbandonerà subito, spinto dal volersi allontanare da quella “vita senza spiragli” che offre il paese, da quella sorta di prigionia che già quel muro attorno ai “tetti rossi” ci avevano fatto presagire.

Se ne andrà e lo farà un poco mosso dal suggerimento della zia morente


«vivi la tua vita. Non fare come me che non l’ho vissuta»


Un po’ dal desiderio e dalle parole dell’amico, Gabriele, che sogna di andarsene, ma che non potrà o non vorrà farlo.

Pintus parte e arriva a Vallona, frequenta  filosofia all’università per poi cambiare direzione; troverà nuovi amici, che sembrano essere più conoscenti che amici; incontrerà l’amore (forse) e il dolore della delusione, deluderà e farà soffrire a sua volta, guidato sempre dalla necessità di  essere libero, di rifuggire ogni gabbia. Dalla sua solitudine.

«se io non mi sentissi sempre o quasi sempre, voglio dire quasi in ogni momento, libero e solo, ne morirei»

Non rendendosi conto di essere ingabbiato e spinto avanti dai suggerimenti degli altri, dal riuscire là dove gli altri hanno solo sognato di arrivare, da quello che sarebbe meglio fare

“la volontà altrui s’era, malgrado tutto, unita alla mia e ancora un’enorme speranza attendeva l’opportunità di realizzarsi, immobile e nascosta come una belva in agguato”


Manipolato dalle parole degli altri. O da quella vita che presenta il suo itinerario fatto di avvenimenti, di momenti dettati dal caso o dall’abitudine


“Era come se una mattina, andando a fare la spesa, mia zia avesse scoperto che la sua vita era noiosa, senza senso, sprecata nell’accudire una casa da cui non era mai riuscita a fuggire, con echi di grida nelle stanze, con quella medaglia sul tavolo, i giorni e gli anni da seppellire sotto gesti automatici e quotidiani, facendo continuamente cose che continuamente si disfacevano, potare i rosai a fianco della porta e, d’inverno, coprirli con fogli di cellofan…”


Da quell’inevitabilità contro la quale poco possiamo fare


«Il fatto è che le cose, amico mio, accadono proprio così, a un tratto e senza ragione. È l’homo sapiens che per illudersi di controllare il mondo inventa e va a caccia di “cause” da legare agli effetti. Chissà perché, così si sente più tranquillo. Forse crede di potere prevedere il futuro o, almeno, di organizzarlo secondo un ordine.»


Quello di Brianna Carafa è una sorta di romanzo di formazione con un protagonista che, un po’ come tutti noi, rincorre la sua strada, e facendolo si perde. Un uomo che cerca la sua identità in mezzo all’estraneità di una città sconosciuta o, forse, tra


“Avevo bisogno di odiare quello che lasciavo, o meglio, di non lasciare nulla. Nulla d’importante almeno.”


Carafa ci regala un romanzo confezionato con una scrittura perfetta, “di qualità” come dirà di lei Calvino. Una scrittura che non ha perso modernità (la prima edizione del romanzo è del 1975, ma nel 2020 è tornato sugli scaffali per merito di Cliquot) e che possiamo leggere oggi come cinquant’anni fa, portandoci a casa probabilmente le stesse domande, ma anche la stessa meraviglia.