Nicola Lagioia – Einaudi
“Sollievo. Sollievo per essere stato risparmiato, per essere stato ignorato, poiché nessuno sa in anticipo su chi si spalancherà l’Occhio, e per quanto certe tragedie colpiscano uno su centomila, quello sventurato deve pur esistere: su di lui si infrange – perché sugli altri resti intatta – l’illusione che certe cose a noi non potranno mai accadere.”
Posso dire che la mia angoscia, il pensiero che mi ha accompagnato in questi giorni di post lettura de La città dei vivi è stato proprio questo. Quel A me queste cose non potranno accadere, quel caso che invece quelle cose le può far accadere.
Mi pare inutile parlare di un romanzo che in molti hanno già letto, al quale io sono arrivata in ritardo e (lo confesso, Nicola Lagioia) forse non avrei mai letto se non mi fosse stato proposto come #librovagabondo , perché io questo libro lo temevo e, forse anche perché, non mi sono mai interessati i fatti di cronaca. Ho sempre pensato che la cronaca non mi riguardasse, appunto, ho sempre pensato che chi si interessa di cronaca fosse un mero “guardone”, come coloro che in autostrada rallentano per cercare di carpire i dettagli di un incidente.
Mi sbagliavo e tu Nicola Lagioia, con questo tuo splendido libro, me lo hai fatto capire. Perché le vicende di cronaca non sono solo vicende di cronaca, non sono solo vicende che interessano gli altri e ci fanno tirare un sospiro di sollievo, sono di più. Sono un indice, sono un segnale “un urlo” e indagarle vuole dire, in fondo, indagare la società, il malessere. Noi tutti.
“Tutti temiamo di vestire i panni della vittima. Viviamo nell’incubo di venire derubati, ingannati, aggrediti, calpestati. È più difficile avere paura del contrario. Preghiamo Dio o il destino di non farci trovare per strada un assassino. Ma quale ostacolo emotivo dobbiamo superare per immaginare di poter essere noi, un giorno, a vestire i panni del carnefice?
È sempre: ti prego, fa’ che non succeda a me. E mai: ti prego, fa’ che non sia io a farlo.”
O, almeno, perdonami se sbaglio, è ciò che ci ho visto io. Ciò che è rimasto appiccicato addosso a me anche dopo aver chiuso questo romanzo che io chiamo romanzo, ma che è altro.
Ne La città dei vivi c’è un lavoro enorme fatto dallo scrittore, un calarsi nelle vicende con il rischio di venirne completamente assorbito, ma il suo è uno sguardo in un certo modo asettico. È come se, anche con il suo scrivere ci dicesse: attenzione, potrebbe capitare anche a te o a me, di trovarti sul baratro, di diventare vittima o carnefice. Non si permette mai di giudicare Lagioia, fa il cronista. E, certo, inserisce supposizioni, tratti lirici (molto belli anche) e i suoi pensieri, ma rimane sempre quel giusto passo indietro che sa che un cronista prima e uno scrittore poi deve sempre avere. E in questo è, semplicemente, perfetto.
“L’omicidio getta su vittima e carnefice la sua luce, ed è sempre una luce parziale, una luce perversa, l’omicidio è il male e il male è il narratore della storia. L’omicidio getta luce su se stesso per lasciare in ombra il resto, affinché vittima e carnefici si confondano nell’eccezionalità dell’accaduto. Facendoci vedere i carnefici come dei mostri ci impedisce di avvicinarli sul piano emotivo; riducendo la vittima alla straordinarietà della sua sorte la allontana dalla nostra empatia.
[…]
Bisognerebbe amare la vittima senza bisogno di sapere nulla di lei. Bisognerebbe sapere molto del carnefice per capire che la distanza che ci separa da lui è minore di quanto crediamo. Questo secondo movimento si impara, è frutto di un’educazione. Il primo è assai più misterioso.”
E poi c’è Roma, perché in questa vicenda, in questo libro Roma è protagonista tanto quanto gli attori principali, tanto quanto il narratore che di Roma non è, ma che di Roma non può più fare a meno. Come di quell’amante crudele che si disinteressa a te, che pare abbandonarti al tuo destino. Ignorarti forse, considerandoti una vittima sacrificabile
“A mancarmi così tanto era la sensazione di assoluta libertà che a Roma era sinonimo di sfascio, anarchia e trascuratezza, e a mancarmi era la certezza, in alcuni momenti vertiginosa, di poter vivere come semplici espressioni umane, alla condizione brada, sciolti dal laccio di uno Stato e perfino dal vincolo di una comunità che voglia dirsi un popolo.”
E lo so che di questo libro si potrebbe parlare per ore. Si dovrebbe parlare di manipolazione, altro argomento che mi ha scossa e mi scuote sempre tanto. Troppo. Ma preferisco limitarmi a suggerirvi la lettura di questo romanzo e di ringraziare Laura e Marta di Libreria Brioschi Cuccagna che lo hanno scelto per me.
Un’amica parlando di La città dei vivi mi ha detto Avrei voluto ci fosse una spiegazione a tutta quella violenza. Forse, ho pensato, se fosse un romanzo quella spiegazione ce l’avremmo, ma è la vita vera…
“Nessun essere umano è all’altezza delle tragedie che lo colpiscono. Gli esseri umano sono imprecisi. Le tragedie, pezzi unici e perfetti, sembrano intagliate ogni volta dalle mani di un dio. Il sentimento del comico nasce da questa sproporzione.”
La città dei vivi è il trentanovesimo Libro Vagabondo, la proposta di Libreria Brioschi Cuccagna

