Le radici sono importanti, dice una donna in un libro che ho letto di recente, si studiano per capire le identità degli uomini, oggi se ne parla molto, dice. Ma non ci sono solo le radici, aggiunge, ci sono anche gli innesti.
E per innesti lei parla di quelle radici non sue, ma delle quali si è nutrita, alle quali si è stretta, si è aggrappata, ne ha attinto nutrimento. Dice che gli innesti sono meno impegnativi delle radici, ma non per questo meno importanti.
Forse questa cosa dell’importanza l’ho aggiunta io, io che di innesti mi sto cibando in questi ultimi anni, io che anche quando mi sono fermata a lungo in luogo, ho spesso sentito che alle mie radici mancava la terra. Io che in ogni luogo vorrei fermarmi, vorrei viverlo, che ogni volta mi chiedo che effetto farebbe essere nata lì. Io che ancora rispondo che il mio luogo non l’ho trovato, mentendo forse, perché di luoghi ne ho trovati fin troppi; e sono i lungomare che ho passeggiato, le colline che mi hanno restituito la pace di un lungo istante, i borghi fatti di quei silenzi che altrove solo la notte ha saputo regalarmi. Lo è il tavolino di un bar dove ho fatto colazione ascoltando turisti parlare in una lingua non mia, o la panchina che ha accolto il mio riposo, lo è un cielo che minacciava pioggia, ma che poi ha ascoltato la mia preghiera. Lo è stato un percorso in treno guardando dal finestrino, o un viaggio in macchina sbagliando strada, per poi trovarne un’altra.
Innesti che si mescolano, si intrecciano, si confondono, perdono i lineamenti.
Avrei dovuto scriverne di più, mi sono detta qualche giorno fa, ma forse anche no penso ora. Perché, in fondo, ora mi sento fatta di una trama di paesaggi e di momenti e ci sono giorni in cui devo pensare un attimo per capire dove sono: in che regione, in che città, chi potrei incontrare e chi invece no. E quei giorni sono miei, solo miei e non riesco nemmeno a spiegarveli.

