Tschingis Aitmatov – Marcos y Marcos – traduzione Guido Menestrina
“E non riuscivo assolutamente a immaginarmi che quest’uomo placido e barbuto fosse stato un tempo un komsomolec, e addirittura, cosa ancora più strana, che avesse insegnato ai bambini, essendo lui stesso semianalfabeta.
No, questo non mi entrava in testa!
A dir a verità, io pensavo che si trattasse di una delle numerose favole che circolavano nel nostro villaggio. Ma mi sbagliavo.”
Altynaj, è diventata una studiosa affermata, vive in città da molti anni ormai, quando accetta l’invito di tornare al villaggio in occasione dell’inaugurazione della nuova scuola. Ma sopraffatta dai ricordi di un tempo lontano, non riuscirà a fermarsi fino alla fine della cerimonia e scapperà via.
Restituirà quei ricordi in una lunga lettera che è, in fondo, una confessione: il racconto della sua vita, partendo da quel giorno (siamo negli anni Venti) che, orfana, ragazzina di quindici anni, incontrò Djujsen, quel maestro, quel “primo maestro” del titolo,
“Ancora oggi non riesco a capire che cosa quel giorno mi spinse a fare un’azione del genere. Forse ero offesa con le mie amiche perché non mi avevano dato retta, e perciò decisi di farmi valere; forse perché fin dalla più tenere età la mia volontà, i miei desideri erano stati seppelliti dalle sgridate e dagli scapaccioni di gente zotica; fatto sta che d’improvviso mi prese la voglia di ringraziare in qualche modo una persona, in pratica sconosciuta, per il suo sorriso che mi aveva riscaldato il cuore, per la piccola fiducia che aveva riposta in me, per le sue poche buone parole.”
Quell’uomo mite e sorridente che è stato capace di costruire una scuola, di andare ogni giorno a recuperare gli alunni nelle loro case, di insistere con i genitori, impuntandosi. Capace di instillare in quei bambini la capacità di voler conoscere, di sapere che esiste un mondo oltre al villaggio
“Sì, fu un’impresa, perché in quei giorni a scuola, se così si poteva chiamare quella capanna d’argilla dalle fessure luccicanti, attraverso le quali si vedevano sempre le cime innevate dei monti, si aprì d’un tratto per noi, bambini kirghisi che non erano mai stati fuori dai confini del villaggio, un mondo mai sentito e mai visto.”
Quel primo maestro che, probabilmente, era poco più che analfabeta, ma che aveva dalla sua la testardaggine di non voler mollare, di lottare perché quei ragazzini avessero qualcosa in cui credere, qualcosa in cui poter sperare, un futuro
“Impadronitici in qualche modo delle basi, quando ancora non sapevamo scrivere ‘mamma’ e ‘papà’, già tracciavamo sulla carta ‘Lenin’. Il nostro vocabolario politico conteneva parole come ‘baj’, ‘bracciante’, ‘Consigli’. E Djujsen ci promise che entro un anno ci avrebbe insegnato a scrivere la parola ‘rivoluzione’”
Aitmatov, con una scritta essenziale, giusta, senza una parola in più o una in meno, in poco più di cento pagine, ci consegna un romanzo dal tocco poetico, nonostante il dolore e la durezza di alcuni passaggi. E, attraverso la sua voce narrante, Altynaj, e alla sua lettera, ci racconta un uomo buono, gentile, un uomo che avrebbe dovuto ricevere gli onori del paese, un uomo che non ha mai chiesto nulla se non di poter seminare il desiderio di imparare nei suoi giovani discepoli
“Perciò mi pongo la seguente domanda: quand’è che abbiamo perduto la capacità di onorare la persona semplice, come la onorava Lenin?”
Il primo maestro è questo, in fondo, un omaggio a una persona semplice. La gratitudine di una donna che vuole saldare un debito di riconoscenza verso un uomo che le ha fatto cambiare una vita che era già scritta e che l’avrebbe portata verso un destino crudele, di soprusi, di violenza, di silenzio.
Ed è, in fondo, un omaggio alla scuola, all’istruzione, alla libertà, all’importanza della conoscenza e al dover uscire dal villaggio, andare oltre ai limiti che ci vengono imposti: oltre quell’orizzonte che il nostro sguardo riesce a raggiungere
“Nascosti tra i rami, ascoltavamo i suoni dei venti, non terreni, e le foglie che, in risposta, sussurravano di regioni seducenti e misteriose, che si nascondevano oltre le azzurre lontananze.
Io ascoltavo il rumore dei pioppi, e mi palpitava il cuore dalla paura e dalla gioia, e sotto quell’irrefrenabile stormire mi sforzavo di immaginare quelle lontane terre.”

