Il parco giochi

In un film visto di recente un uomo chiede a una donna se, tornando a casa, si è mai fermata a guardare i bambini giocare. Sono seduti al tavolo di un bar, è sera, è tardi; lei è giovane, lui non lo è più.

Lui vivrà ancora per pochi mesi, sei, sette, al massimo nove. Lei ha un sorriso dai denti sporgenti e tanta voglia di vivere.

Lui le parla di quei bambini che giocano incuranti di tutto, incuranti del tempo che passa. Quei bambini che, anche quando sono chiamati dalla mamma, fanno resistenza, non obbediscono subito. Le racconta che c’è sempre quel bambino seduto su una panchina, che non è né felice, né triste, è seduto lì e aspetta solo la chiamata della mamma. Le dice che lui non vuole essere quel bimbo lì. In quel film ci sarà un parco giochi e anche un’altalena, ma arriveranno solo più tardi.

Poco dopo un amico mi avrebbe detto che non devo dimenticare mai quanto sono stata coraggiosa, mi avrebbe detto che molti restano fermi in un posto anche se quel posto non li rende felici, io no, io me ne sono andata.

E io gli avrei raccontato che il protagonista di quel film riguarda la sua vita e vede solo abitudini, poche parole, pochi sorrisi, gli avrei detto che di questo lui se ne accorge quando ormai la fine gli è stata diagnosticata.

E forse il film ci dice che non è mai troppo tardi, ma invece un poco tardi è, avrei pensato io, perché la vita che è passata è passata, e ciò che resta è sempre meno.

Tornando a casa ho ripensato al parco giochi di quel film e che io ho sempre avuto paura di salire su uno scivolo, ma che, ancora oggi, non so resistere a sedermi su un’altalena e dondolarmi un poco. Ma questa è un’altra storia o forse no.