Cose che non si raccontano

Antolella Lattanzi – Einaudi

“Io ho sempre amato il sangue. Il sangue delle ferite, delle ginocchia che ti sbucci andando sui pattini nel cortile di casa, degli scogli che ti graffiano perché hai fatto un tuffo un po’ azzardato o ti sei buttata nel mare da un punto impervio, il sangue di certi patti di sangue da adolescenti in cui credi follemente, il mio sangue nelle siringhe delle analisi del sangue. L’ho sempre amato perché mi faceva sentire coraggiosa.”

E con il sangue inizia questo romanzo di Antonella Lattanzi e il sangue lo incontreremo spesso durante il percorso, sangue non desiderato, sangue che cancella una speranza, sangue che dissangua.

“Tutta questa storia è una storia di sangue”

Dicevo che con il sangue inizia questa romanzo e con il coraggio di Lattanzi continua. Perché la scrittrice prende la penna (o la tastiera) e decide di raccontare una delle cose che non vengono mai raccontate.

In un’intervista Lattanzi racconta di non aver avuto scampo, che la sua testa era troppo piena di questa sua storia per permetterle di ignorarla, di non scriverla. Dice che mentre tutto le accadeva nella sua testa lei si appuntava delle frasi. E tutto questo “troppo”, tutto questo essere avvolta in un unico pensiero (o desiderio), pensiero (o ossessione) che assorbe completamente, che riesce persino, quasi sempre, a offuscare l’altro grande desiderio della scrittrice: scrivere, la fama, l’ambizione (parola che vediamo sempre nella sua eccezione negativa) è il desiderio di avere un figlio.

Lattanzi parla del desiderio di essere madre e parla di quel pensiero magico che le sussurra che non si merita di diventarlo

“Un figlio non è un vestito, non è un contratto per la pubblicazione di un libro, non è un contratto in nero per una casa al mare, hai detto no a due figli e allora quel dito che da sempre aspettavi sarebbe uscito uncinato e muscoloso dal cielo ha finalmente bucato le nuvole e ti ha indicato davanti a tutti e ha detto: tu, non te lo meriti. E ha ucciso le tue tre bambine”

Parla di aborto, di provare ad avere un figlio, parla di procreazione assistita, parla di violenza ostetrica e di perdita: perché che questa sarà una storia che andrà a finire male lo sappiamo fin dall’inizio. Parla di quello che lei definisce essere un desiderio feroce, perché questo è la maternità.

“Non sono stata coraggiosa. Ho tratto vita dal mio lavoro come mai prima. Ho tratto vita dalla bellissima tempesta del romanzo e l’ho trasferita dentro ai miei tre figli. Ho tratto vita dalla bellissima – sì, bellissima – tempesta dei miei figlie e l’ho trasferita dentro al romanzo.
Non è coraggio. Non è sopravvivenza.
C’è un’immagine a cui penso sempre. Una sanguisuga che ti succhia il sangue, succhia, e ti stordisce. E tu ti abbandoni e chiudi gli occhi e quanto è lieve finalmente svenire.”

Ma parla anche di un rapporto di coppia che un poco vacilla dietro a questa ossessione non condivisa allo stesso modo, e parla (e questo è, credo, ciò che mi ha fatto sopportare tutto quel dolore, come credo anche alla protagonista del romanzo) di amicizia

Io, confesso, non ho avuto un buon rapporto con questo libro: partivo con il preconcetto del “a me non interessa un romanzo che parla di maternità” e leggendolo ho sentito forte quel “troppo” che mi ha soffocata. Ho sentito tutto il mio non aver mai voluto essere madre, non esserlo mai stata, non aver mai capito fino in fondo questo desiderio, appunto, feroce. L’ho chiuso dicendo: Ecco, sapevo che non faceva per me…