Fariba Vafi – Ponte 33 – traduzione H. Nazemi e B.M. Filippini
“Raramente succede che a quest’ora la casa sia così vuota e silenziosa. Non è una solitudine che mi piace. Assomiglia a un abbandono, come se tutti mi avessero lasciata qui e se ne fossero andanti.
Accavallo le gambe e fisso la parete di cemento del cortile. Non posso fare a meno di pensare a quello che c’è oltre, e alle finestre da cui arriva solo odore di cibo. Comunque, a che serve tutto questo guardare i muri? Meglio girare la sedia. Qualche volta un mezzo giro di sedia ti cambia l’umore.”
La protagonista e voce narrante di Come un uccello in volo è una donna che vive l’Iran contemporaneo: casalinga, moglie e madre di due figli. Figlia a sua volta di una madre che passa i giorni a lamentarsi di tutto e di un padre che non c’è più. Un padre che a un certo punto si è perso, ha smarrito la memoria, per poi morire da solo in cantina.
È lei che ci porta nella sua vita fatta di solitudine, di irrequietezza e di preoccupazione per i figli che crescono
“Devo insegnare a Shadi a stare attenta. È possibile che qualcuno la tratti con troppa gentilezza. Nel mondo ci sono tante forme di gentilezza e lei deve imparare a distinguerle. Vorrei dirle di stare attenta ai giovanotti che vanno e vengono nel nostro palazzo. Non so come farle capire che se qualcuno vuole toccarla, lei deve urlare”
Dei piccoli e grandi problemi di ogni giorno. Di un marito che sogna di emigrare in Canada e di abbandonare un quartiere brutto, una vita che vede brutta
“Amir ha detto: – Che brutta vita stiamo facendo! – . Questo è di solito il commento della sera, quando rientra dopo una giornata di fatica e si sdraia, sospirando, davanti al condizionatore. Non è quello del mattino, quando è il momento di andare a lavorare e il mondo ha ancora qualche possibilità di cambiare.”
E lei cosa vuole? Forse è questo che si domanda durante tutta la narrazione: tra quella quotidianità di giorni che seguono i giorni e i ricordi di un passato che tornano a bussare, a interrogarla a loro volta. A puntarle il dito contro, facendo emergere rimorsi e sensi di colpa. Tra il dubbio di non essere più così desiderabile per il marito e l’insofferenza che la vita di coppia a volte le provoca. Tra le sue fughe fatte di sogni e pensieri
“Amir […] Non sa che lo tradisco cento volte al giorno. Che cento volte al giorno, spaventata, come una donna che non si è mai allontanata da casa sua, fuggo via da questa vita. Piano, senza far rumore, furtivamente, tremando di paura, vado in luoghi che Amir non può neanche immaginare. Poi, pentita, soffocata dal rimorso, torno a casa, da Amir, nel buio di una notte come questa.”
“Devo essere la più miserabile di tutti, perché quando sono stufa io, appoggio la testa sulla pancia della persona che mi ha stufato di più e ascolto il brontolio delle sue viscere, per poi vergognarmi del mio essere stufa.”
Il romanzo che ci regala la scrittura diretta ed essenziale, a tratti ironica, di Fariba Vafi è un piccolo viaggio in una realtà che poco conosciamo, perché quando sentiamo parlare di Iran, quando leggiamo romanzi ambientati in Iran, spesso incontriamo la guerra, l’oppressione, la fuga.
In Come un uccello in volo, invece, incontriamo una vita qualunque, una vita che forse potrebbe anche essere trasportata altrove: una vita fatta di desideri repressi, di piccole e grandi infelicità, la vita di una donna che è combattuta tra il restare chiusa nella sua gabbia fatta di tradizione, di famiglia, del mondo che conosce e la tentazione di spiccare il volo
“Mamma dice che ogni persona ha un uccello migratore. Se vola via e si posa in posto, chiama il suo padrone”

