Che razza di libro!

Jason Mott – NN editore – traduzione Valentina Daniele

“La cosa che gli piaceva di più dell’essere non visto era non vedere più la sua pelle. Era sfuggito alla sua carne scura. Era fuggito da Nerofumo e perciò, quando chiudeva gli occhi e pensava a se stesso, finalmente aveva la possibilità di vedere il ragazzino che viveva dietro i suoi occhi fin dall’inizio.
Era un bambino piccolo e vivace. Sorrideva. Rideva. Sembrava contento di sé e del mondo. Non era un bambino che aveva paura.”

In questa storia c’è un ragazzino nero che si esercita a diventare invisibile perché papà e mamma gli hanno insegnato che è l’unico modo per restare in una zona protetta, per non farsi trovare dalla violenza delle parole e dei fatti, per restare lontano dalle cose brutte che la vita ha (inevitabilmente) in serbo per lui e per quelli come lui.

E c’è uno scrittore che vede anche ciò che gli altri non vedono, uno scrittore che, forse proprio perché scrittore, forse per sfuggire a un qualcosa che non vuole ricordare, ha una immaginazione più grande degli altri

“Fondamentalmente sono uno che sogna a occhi aperti. Ma le mie fantasticherie tendono a persistere, più a lungo e con maggiore intensità i quelle degli altri. O perlomeno, così mi hanno detto tutti i medici che mi hanno visitato. Il risultato finale è che la realtà è una cosa molto fluida nel mio mondo. Probabilmente è questo il motivo per cui mi sono infilato in questa storia della scrittura”

Ovviamente questi due personaggi sono destinati a incontrarsi e a vedersi

«Volevo solo che mi vedessi». È una cosa bellissima da dire a una persona. Non è quello che vogliamo tutti? Essere visti?
Prima di andarmene mi chino verso di lui e dico, nel mio tono più sincero: «Ti vedo»

La storia che ci racconta Jason Mott parla di razza, di colore della pelle e di come essere nero possa essere un handicap da sempre e per sempre, fino a farci intuire l’impossibilità di una vita felice, di una vita bella per una persona di colore, di una persona che deve fare i conti ogni giorno con questo suo essere diverso, giudicato inferiore, vittima di un pregiudizio

“Ma felice? No. Dubito che i neri possano essere felici in questo mondo. C’è un antefatto di tristezza troppo lungo che azzanna alle caviglie. E per quanto cerci di seminarla, la vita riesce sempre a ricordarti che prima di ogni altra cosa tu sei parte di un popolo sfruttato e di un destino negato, e tutto quello che puoi fare è odiare il tuo passato e, per procura, odiare te stesso.”

Lo fa utilizzando lo stile di quell’amico che fa sempre il simpatico, che ti fa ridere con le sue battute, che trasforma in battuta o in leggerezza tutto, per nascondere il vero dramma, per nascondere quel dolore al quale non vuole pensare.  Ma piano piano quel dolore, quel passato, ciò che è successo arriva al lettore. E il lettore inizia a capire che no, non sta leggendo un libro che lo porterà alla risata (anche se ci sono passaggi che ridere fanno, certo), tutt’altro.

Jason Mott pare mischiare le carte, a volte hai la sensazione che ragazzino e scrittore siano la stessa persona (o almeno io ho avuto questa sensazione), ma forse solo perché l’intento è quello di farci vedere che quanto sei nero, non è veramente importante chi tu sia.

“Ci sono corpi che non sono di chi li abita. Non lo sono mai stati e non lo saranno mai. Una verità persistente, inevitabile, spaventosa, conosciuta da milioni di corpi sfollati. La Paura.
C’era sempre stata, ma ora riuscivo a vederla. A riconoscerla. E quando succede, quando la vedi, non puoi più distogliere lo sguardo. Non puoi più zittirla. Non puoi mai dimenticare che non appartieni più a te stesso, ma alle mani, ai pugni, alle manette e ai proiettili di uno sconosciuto”

Jason Mott scrive un grido di protesta contro il razzismo, contro la violenza della polizia sui neri, contro l’essere costretti in quanto afroamericani a fare i conti con il colore della pelle e a sentire di valere di meno per quel colore, perché così gli altri ti fanno credere (gli stessi genitori del Ragazzino, gli dicono di scomparire, non di lottare. Lottare è impossibile, è pericoloso, è inutile).

Mott mette in gioco anche se stesso, essendo lui stesso uno scrittore afroamericano e pare volersi chiedere se uno scrittore afroamericano può essere scrittore e punto (all’inizio della storia noi non sappiamo che lo scrittore è di colore) senza dover per forza aggiungere “di colore”. Senza dover affrontare la questione razziale.

“«L’ultima cosa di cui la gente vuol sentir parlare è l’essere neri. Senza offesa, essere neri è una maledizione: e nessuno vuole sentirsi addosso una maledizione mentre legge un libro per cui ha speso ventiquattro dollari e novantacinque. Non so se mi spiego.»
[…]
… come ho detto: questa è una storia d’amore.”