Bottigliette

Sophie van Lllewyn – Keller editore – traduzione Elvira Grassi

“distoglie i suoi occhi arrossati e guarda implorante la foto dell’Amato Leader appesa sopra la lavagna. Vent’anni dopo, al suo posto ci sarebbe stata l’icona del Salvatore, ma nel 1975 è il ritratto di Ceausescu che i bambini devono venerare”

Ci sono narrazioni capaci di raccontarci l’oppressione e la paura con un tocco lieve, poetico, a tratti magico. Ci sono narrazioni che sanno parlarci dell’orrore e della sofferenza di un popolo senza raccontarla fino in fondo. Accennandola, facendocela sentire dall’interno di chi quella sofferenza quell’oppressione la vive, di chi soffoca ogni giorno un poco di più, di chi vive ogni giorno con la paura di sbagliare, di commettere un errore che possa portare alla prigionia, alla tortura, alla morte; di chi sogna la fuga, sogna un mondo diverso, sogna la libertà.

“C’è qualcosa nel modo in cui ci abbracciamo di notte, come naufraghi, come quell’estate in cui il mare ci lambiva i piedi, come quando ci siamo conosciuti. C’è qualcosa nel modo in cui diciamo lo faremo, lo faremo, lo faremo che risuona nelle nostre orecchie come una musica.”

Uno di questi romanzi è Bottigliette. Un romanzo, semplicemente perfetto. Un romanzo che sa ferire delicatamente il lettore, quel lettore che si sente subito lì, dentro al pensiero di Alina quella protagonista che ci racconta la sua storia e lo fa a tratti in prima persona (quasi in un dialogo che Alina fa con se stessa), a tratti nascondendosi dietro la terza persona della voce narrante. E lo fa anche alternando tratti di narrazione (chiamiamola) tradizionale a momenti prelevati da un diario, a piccole affermazioni che sono punti di una lista, oppure momenti di una giornata. Arrivando persino a regalare dettagli al lettore inserendoli in una lettera scritta a Babbo Natale

“Lista dei desideri:
Un paio di jeans Levi’s
Un rossetto, come quello che si mette l’insegnante di pianoforte, di un elegante tono bordeaux
[…]
Ti prego, fammi tornare bambina. Un’adolescente. Una studentessa. Una ragazza che non ha ancora perso il padre o le proprie idee romantiche riguardo al mondo, alla povertà, alla benevolenza, all’amore di un genitore.”

Leggendo Bottigliette, ho capito quanto amo questo genere di narrazione. Originale, non lineare, che ti spiazza a ogni capitolo, che non segue un ritmo costante se non quello di aggiungere tasselli a un puzzle, dettagli a una storia. Un po’ come fanno i ricordi, un po’ come quando si vuole recuperare la memoria di ciò che è accaduto e lo si fa con gli elementi che abbiamo a disposizione, attingendo un po’ da una fonte, un po’ da un’altra, un po’ da una foto, un po’ da un diario, un poco dal ricordo che abbiamo di quel momento.

“L’infanzia di Alina è una chiave di metallo che penzola da una cordicella. Si fa bollente sotto la camiciola della sua divisa (a quadretti bianchi e blu e lunga fino al ginocchio), il grembiule blu (poroso e rigido come il lato ruvido di una spugnetta per i piatti) e la cravattina rossa a clip dei Pionieri. La madre fa la sarta e non va mai a prenderla a scuola – Alina apre da sola la porta in cartone pressato della sua casa vuota. Talvolta, ad aspettarla, c’è un piatto di cibo freddo preparato la sera prima. Talvolta, non c’è nulla sulla tavola.”

Non sto raccontando nulla della storia, né di quelle bottigliette del titolo (quelle dovrete scoprirle asso lutante da soli!), perché credo che il punto principale di questo libro, ciò che me lo ha fatto leggere tutto in un fiato (o quasi), ciò che mi ha fatta emozionare, non sia stata la trama, ma lo stile, la voce dell’autrice. Sophie van Llewyn ci regala questo, prima di tutto, un modo di raccontarci una storia che a me ha fatto pensare a un racconto davanti al fuoco o prima di rimboccare le coperte e dire la buonanotte. E con questo non voglio dire che Bottigliette sia una storia consolatoria, non lo è affatto. Voglio solo dire che leggendolo ho avuto la sensazione che Alina quella storia la stesse raccontando proprio a me.

“Quando siamo spaventati abbiamo tutti bisogno delle nostre madri.”