Alejandro Varela – NN editore – traduzione Stefano Valenti
“Al liceo ero un ragazzo popolare, ma era una fatica. Essere sempre nel posto giusto, far ridere la gente, essere un buon ballerino, organizzare le migliori feste, bere senza sosta, fumare qualunque cosa, farmi di acidi, fare amicizia con le belle ragazze in modo da essere scambiato per un dongiovanni, mantenere una media alta, dire di sì a tutti, sempre. No so se fossi consapevole di quanto mi stessi sforzando, ma da qualche parte dentro di me sentivo che se avessi smesso anche solo per un momento, il pubblico se ne sarebbe andato; così, in un certo senso, me ne sono andato prima io. Non avrei mai pensato che sarebbero rimasti tutti seduti.”
C’è stato un tempo in cui ho fatto dei corsi di scrittura creativa e una delle regole più importanti che ricordo della scrittura, oltre a non usare troppi aggettivi o troppi avverbi, è non portare all’interno del romanzo tutto. Una parte devi scriverla certo, ma la devi scrivere solo per te, non devi raccontarla ai lettori, a loro non serve. Devi lavorare per sottrazione. Il lettore non ha bisogno di sapere proprio tutto, il lettore capisce non ha bisogno che gli venga spiegato ogni cosa.
Vi starete chiedendo cosa c’entra questo con Babylon, c’entra perché leggendolo questo romanzo io ho avuto la sensazione che Alejandro Varela non abbia rispettato questa regola.
Un uomo torna al suo paese per occuparsi del padre malato e inciampa in una reunion dei compagni del liceo
“Negli ultimi vent’anni, queste rimpatriate hanno attraversato i miei pensieri come un corpo in caduta libera oppure aerei che si schiantavano contro edifici, vale a dire in un baleno e, a volte con un brivido. In quei momenti avevo paura di rivivere il passato, di scivolare senza scampo nella sua morsa – di lamentarmene, di farmene ossessionare. Un po’ come rivelare ad alta voce un segreto a lungo conservato e sul punto di essere dimenticato. Che è meglio dimenticare. Tra pochi minuti tutto cambierà. Vent’anni di assenza dal passato avranno fine.”
e soprattutto inciampa nel suo primo grande amore Jeremy, nei ricordi, in un qualcosa di incompiuto che è rimasto tra di loro. In una domanda mai dimenticata che ora ha bisogno di una risposta.
Ma, ovviamente, ritrova anche quei personaggi che hanno caratterizzato la sua adolescenza, la sua presa di coscienza, il suo diventare adulto. E la sua amica Simone, ora ricoverata in un ospedale psichiatrico.
Le prime pagine di Babylon mi hanno anche catturata, l’idea anche se già sentita e visitata, poteva avere dell’interessante, ma poi Varela si perde nel racconto di tutto e di tutti. Dove per tutto si intende la realtà di una cittadella dove si sono ritrovate a vivere diverse minoranze etniche. Cosa che di certo potrebbe essere interessante se Varela non si perdesse nel raccontare troppo, anche ciò che a mio avviso serve poco al proseguo della storia. Valera inoltre pare voler affrontare troppi temi, lasciando la sensazione al lettore di non capire bene che tipo di storia gli venga raccontata: parla di omosessualità, di violenza, di malattia mentale, di aborto. Di un crimine impunito, di droghe, alcol e di diversità. Di rapporti genitori/figli e di desiderio o meno di avere un figlio. Di matrimonio e di sesso che non sempre è correlato con il matrimonio. Troppo, o almeno questa è la sensazione che è rimasta addosso a me.
Troppi sono i protagonisti nella storia, troppi coloro dei quali ci viene narrato sia il presente che il passato, e questo pur non essendo Babylon un romanzo corale, ma rimanendo Andreas/Andy l’unico protagonista. Un protagonista per il quale io non sono riuscita a provare empatia.
Ovviamente questo è solo il mio (modesto) parere, del resto come si sa non esistono romanzi adatti a tutti…

